Marisa Fumagalli, Style 25/4/2013, 25 aprile 2013
LUCIANO MONOSILIO
«I miei piatti pescano nei ricordi del passato e riattivano la memoria. Ma sono realizzati utilizzando le nuove tecnologie, presentati in modo da appagare anche la vista». Ne cita alcuni: il crudo d’oca, mela e senape; il tortello di agnello, panna e menta; i ravioli di scarola, burrata e alici; petto di pollo, maionese e ostrica. Parla e sorride sornione, Luciano Monosilio, 29 anni e la prima stella Michelin appena compiuti, chef di grido in un momento storico in cui gli chef sono quel che gli stilisti erano negli anni Ottanta. E magari si schernisce, a più riprese sostenendo che il vero artefice dei traguardi raggiunti è Alessandro, patron del ristorante cui ha dato il suo cognome: Pipero al Rex, una ventina di coperti in un hotel romano dalle parti del Viminale (già, si mormora, occasionale ritrovo di grillini di primo piano). Entrambi sono di Albano Laziale (Rm), dove, nella cucina del primo Pipero, è cominciato il sodalizio che li ha portati nella capitale (con l’ambito riconoscimento Michelin guadagnato in soli 14 mesi). Ben contento di lasciare al suo principale la gestione imprenditoriale, Monosilio di suo ci mette ingredienti di prim’ordine: talento naturale, bravura, esperienza, umiltà. «E fortuna», sottolinea lui, con un’aria incredula. «Ancora non mi sono reso conto di che cosa mi sta succedendo. Sono diventato cuoco quasi per caso e, se non ci fosse stata la catena di Sant’Antonio di amici e conoscenti, incontrati nei vari posti dove ho lavorato, oggi non sarei diventato quello che sono». Alto, magro, occhiali grandi, cerchiati di nero, è facile percepirlo come un hipster del terzo millennio.
Aria da intellettuale di tendenza, ma saggezza concreta dei Castelli romani. Tocchi glamour: per gli spostamenti in città usa l’Harley-Davidson; gli piacciono il surf, la musica elettronica. Tocchi retro: adora le chiacchiere con gli amici anche se «mi chiedono le solite banalità sulla cucina», veste casual con moderazione, porta volentieri camicia e giacca («meno la cravatta»), il cappotto d’inverno. Il più caro l’ha comprato a Milano («dove abita la mia ragazza»), da Boggi, a due mila euro. Preferisce i mocassini alle scarpe da tennis. Insomma, un tipo neotradizionalista di tendenza. Proprio come la sua cucina.
C’è un episodio che la dice lunga sulla capacità di attrarre clientela. Ruota attorno agli spaghetti alla Carbonara. Che, agli inizi, da Piperò si proponevano a peso e a prezzi variabili: 50, 150, 200, 250 grammi. «La gente arrivava numerosa» racconta Luciano – «ma abbiamo dovuto fermarci, poiché molti ci scambiavano per la tipica trattoria romanesca, mentre questo è un locale gourmet». Morale della favola: gli spaghetti alla Carbonara («con il guanciale rosolato nel suo grasso, senza olio, i rossi d’uovo montati come uno zabaione con il pecorino e il parmigiano») sono rimasti nel menu, a caro prezzo: 22 euro. «Così, non li ordina più nessuno» scherza il cuoco.
Monosilio, davvero il successo non le ha dato alla testa, in un’epoca in cui gli chef sono considerati superstar? Intendiamoci, non è che mi dispiaccia essere conosciuto e riconosciuto. Ma sono un tipo realista e non mi faccio incantare dai riflettori. Prenda la tv. Mi hanno chiesto di partecipare a un programma popolare e seguito. Ho detto di no.
Quale? E il perche del gran rifiuto? La Prova del cuoco. Ho risposto di no semplicemente perche in televisione non riesci a dimostrare le tue reali capacità. Soltanto nella tua cucina, standoci fisicamente, puoi esprimere la tua bravura. Sto parlando di -Uno chef, non di un pizzaiolo, con tutto rispetto.
E Carlo Cracco, per citare il nome più famoso? Sbaglia anche lui partecipando a Masterchef? Un altro pianeta. Cracco tiene la scena e giudica i concorrenti. L’ha mai visto spadellare in tv? Preparare una sua ricetta? Promuove la sua immagine, non traffica con i fornelli. E fa bene; ci starei anch’io così...
Oggi, il suo è diventato un mestiere ricercato. Molti giovani vorrebbero diventare chef, sognando la tv e la gloria. È vero, ma ha presente le mode? Prima o poi finiscono. Mi permetto di avvertire che questo è un lavoro duro. Richiede resistenza fisica, determinazione, oltre al talento e alla predisposizione mentale.
Lei ce l’ha fatta. Ci racconti la sua storia di cuoco quasi per caso. È lunga e ingarbugliata. Per cominciare, da ragazzino cucinavo per me, costretto dal fatto che, al ritorno da scuola, i miei genitori erano fuori casa. Allora mi preparavo un piatto di spaghetti e qualcos’altro. Ci prendevo gusto, sfogliando perfino qualche libro di ricette. Un giorno, mi è venuta una verza ripiena che era un piccolo capolavoro... Altri rudimenti li ho imparati da una zia di Torvaianica dove andavo tutte le estati da ragazzino.
Un ragazzino buongustaio. Poi, che ha combinato? Avevo la passione del calcio lo so non c’entra, ma era lì che puntavo e mi ci sono buttato. Per guadagnare due soldi, durante l’estate mi davo da fare nei ristoranti: lavapiatti e cose simili. Insulti, sgridate, ambiente d’inferno. Il sogno sportivo svanisce a causa di un grave infortunio sul campo. Allora dico addio al pallone e inizio a frequentare l’Istituto alberghiero.
Come tanti ragazzi, a giudicare dalle statistiche che registrano un costante incremento di iscrizioni in questo settore di studi. Quando mi sono iscritto io, l’alberghiero Artusi di Roma era pieno di sfigati e di soggetti pericolosi. Non scherzo. Ora tutto è cambiato. Ci vanno i figli di papa, i perbenino, quelli che potrebbero studiare da avvocato o commercialista.
I suoi primi guadagni? Quindicimila lire la settimana.
E la prima chance? L’incontro giusto, cioè il primo anello della mia catena di Sant’Antonio, avviene in un ristorante, anonimo, dell’Eur, Rucola e pachino. Conosco, infatti, Nabil Hadj-Hassen. Cuoco tunisino eccezionale, finito lì per disavventure della vita, dopo aver lavorato da Alain Ducasse. È lui che mi ha fatto capire che cosa significhi davvero cucinare. Ed è stato Nabil a chiamarmi dai mitici fratelli Roscioli dove l’avevano ingaggiato come chef.
Eccellente indirizzo della capitale. Un posto ben frequentato. Trampolino di lancio? Periodo fondamentale, direi. Da lì sono passati tutti. Nomi blasonati della critica gastronomica era l’epoca del Gambero Rosso, della Città del Gusto chef famosi: Massimo Rottura, Mauro Uliassi, Antonello Colonna, Massimiliano Alajmo. Perfino Paul Bocuse. Confesso che, allora, non sapevo nulla di loro; sicché, quando venivano annunciati a pranzo o a cena, andavo a documentarmi in Internet. Nella cucina di quel ristorante ho capito il valore della materia prima, per me quasi sconosciuto. E quindi anche il perche alcuni ristoranti costano tanto. Insomma, un altro mondo.
Non ha mai fatto esperienze all’estero? Una, in Sudafrica. Non in un locale stellato. Sono partito dall’Italia, per stress, per stanchezza. «Prima o poi tornerò» mi dicevo lasciando Roscioli. A Città del Capo, mi sono dedicato più all’organizzazione del personale che alla cucina.
Curriculum a zig zag, senza un maestro di riferimento. Come è riuscito a raggiungere un alto livello di professionalità? A volte me lo chiedo anch’io. La predisposizione a questo mestiere penso di averla. Forse sono stato capace di catturare il meglio dagli chef con cui ho lavorato, anche per brevi periodi. Penso a Mauro Uliassi, al suo locale di Senigallia (An). Mi ci mandarono i fratelli Roscioli per uno stage estivo. Indimenticabile e proficua è stata l’esperienza al Piazza Duomo di Alba (Cn), presso Enrico Grippa, che oggi ha 3 stelle. Da lui ho imparato la nettezza dei sapori, l’importanza dei profumi. Non a caso gli ho rubato la ricetta dell’insalata.
L’insalata? Non un’insalata qualsiasi. È un’armonia di erbe di stagione. Dal grande Grippa sono stato nel periodo che va dalla chiusura di Pipero di Albano all’apertura del nuovo Pipero al Rex. Qui, finalmente, ho potuto esprimermi, realizzando i miei piatti.
Riesce a definire compiutamente la sua cucina? È un po’ complicato, ci provo. Profumo e materie prime. Mi affido all’estro, alla creatività. E gli ingredienti devono essere riconoscibili. Il pollo è pollo, il maiale è maiale, il cavolo è cavolo.
I segni tangibili del successo? La stella Michelin, ovviamente. Il ristorante che si riempie, l’invito a congressi gastronomici, come Identità Golose, a Milano e a Londra. Questa intervista.
Siamo a Roma, la città dei Palazzi del potere. I politici siedono ai tavoli di Pipero al Rex? Sì, parecchi. Non Silvio Berlusconi ne Pier Luigi Bersani, però. Mentre le rivelerò che Grillo ha alloggiato, con discrezione, qui al Rex. Al ristorante non si è fatto vedere.
Il futuro di Luciano Monosilio? Se brucio tutto a 29 anni, che cosa mi rimane? Vorrei partire per qualche viaggio significativo, conoscere le cucine sudamericane, crescere, coltivarmi. Via da qui, per tornare più bravo.