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 2013  aprile 30 Martedì calendario

TRE GERMANIE A CONFRONTO

Con il suo peso, la Germania domina il quadro europeo. Anche se una delle preoccupazioni principali dei suoi dirigenti, a cominciare dalla cancelliera Angela Merkel, è quella di dissipare i timori dei vicini, qualunque scelta tedesca non può non avere conseguenza sull’Europa. Un contributo importante per capire questo «egemone riluttante», come lo ha definito il politologo e germanista Angelo Bolaffi, viene da un austriaco, il cinquantenne Michael Gehler. Il suo Le tre Germanie, tradotto in Italia dall’editore Odoya (400 pagine, 20 euro), mette finalmente a disposizione del lettore una cosa che non c’era: un quadro d’insieme, dall’occupazione alleata dei territori dell’ex Reich dopo il disastro hitleriano alla nascita dei due stati tedeschi (Repubblica Federale e Repubblica Democratica Tedesca) sotto l’incubo della Guerra Fredda; dalla competizione su suolo tedesco dei due sistemi, il capitalista e il comunista, all’apertura del Muro; dalla riunificazione guidata da Helmut Kohl alla partecipazione voluta da Schroeder alla guerra della Nato in Kosovo; dal ritorno di Berlino alla funzione di capitale all’ascesa di Angela Merkel alla testa di una grande coalizione, dal 2005 al 2009.
Tre Germanie, dunque: quelle di Bonn e Pankow, avversarie eppure alla fine strette in una forma di coesistenza, e la nuova Berliner Republik, nata dalla rivoluzione dell’89. L’affresco, però, non si limita agli eventi tedeschi. E non potrebbe essere altrimenti, perché la storia della Germania postbellica è indissolubilmente intrecciata alla costruzione europea, dal primo nucleo della Comunità del carbone e dell’acciaio fino alla Ue del trattato di Lisbona. Il volume è un importante promemoria di storia europea.
Il lavoro di Gehler, però, non è una semplice tavola sinottica di dati. L’origine austriaca dell’autore è importante: anche l’Austria, che con l’Anschluss era diventata parte del Reich, dopo la guerra fu occupata dagli Alleati. Anche Vienna, come Berlino, era divisa in settori, uno dei quali controllato dai sovietici. Eppure, all’Austria il destino della spaccatura in due Stati venne risparmiato: nel ’55 il Paese poté ottenere libertà e unità, in cambio della neutralità dai blocchi.
LA DIVISIONE

Un’opzione, questa, che in Germania venne aspramente combattuta da Konrad Adenauer. Dalle pagine di Gehler, il primo cancelliere del dopoguerra, che considerava «zavorra» i territori a Est dell’Elba, emerge come uno dei primi responsabili della divisione, con il suo rigido anticomunismo e la sua ossessione di costituire un nucleo tedesco-occidentale capitalista, economicamente forte e strettamente ancorato all’America e alla Nato. Stalin, di contro, fino a primi anni Cinquanta continuò a prospettare all’ormai ex alleato americano una Germania unita e neutrale. “Finlandizzata”, come si usava dire. Poi, nel quadro ormai cristallizzato della Guerra Fredda, l’Urss si decise a puntare sulla Deutsche Demokratische Republik, «il figlio non amato da Stalin», in competizione con la Repubblica Federale.
Finita come sappiamo. Adenauer ha avuto dunque ragione? Per i falchi, sì. Gehler non milita in questo campo e sottolinea i quattro decenni di isolamento e sofferenze ai quali furono sottoposti i tedeschi dei territori orientali e che forse avrebbero potuto essere loro in parte risparmiati. E aggiunge: «La divisione tedesca rese più netta quella europea, permettendo di cementare le strutture della Guerra Fredda. Gli storici tedeschi hanno stranamente taciuto su questo aspetto». L’autore tratteggia in modo preciso le differenze tra i due cancellieri più importanti del dopoguerra, entrambi cristiano-democratici: Adenauer e Helmut Kohl, l’uomo della riunificazione. Quest’ultimo, a differenza del suo maestro, non ebbe nessuna esitazione a recarsi a Mosca e a trattare direttamente con il leader sovietico sul futuro della Germania unita. L’azione di Kohl prefigura un mondo che è già oltre la guerra fredda. In mezzo ci sono quattro decenni e la Ostpolitik di Willy Brandt non è passata invano. E Gorbaciov non è Stalin.