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 2013  aprile 29 Lunedì calendario

DIRETTORI DEL PERSONALE I METODI SCIENTIFICI PER VALUTARE I DIPENDENTI


Uno strumento per calibrare il lavoro del personale sulle esigenze dell’azienda. Per valorizzare il merito e garantire ai dipendenti percorsi di crescita professionale. Ma pur sempre uno strumento, che va maneggiato e messo a punto con cura, per evitare che produca risultati negativi. La “valutazione del personale” è una pratica sempre più diffusa tra i manager delle aziende italiane. Che, arrivate un po’ in ritardo a riconoscere il valore di una pratica “scientifica” (al posto di sistemi antiquati basati sul “fiuto”), oggi hanno quasi colmato la distanza con i concorrenti europei. Lo rivela un sondaggio condotto da Gso Company su un campione di 60 medie e grandi imprese attive nel paese, che occupano complessivamente circa 340mila lavoratori.
Sistemi come la “valutazione delle prestazioni” e la “gestione per obiettivi” sono applicati in oltre quattro casi su cinque, la “valutazione delle competenze” nel 60 per cento dei casi, quella del potenziale e della posizione quasi nella metà.
Un divario, però, si nota ancora: «La valutazione è più diffusa nelle società multinazionali, tricolori o straniere, molto meno in quelle nazionali», spiega Paolo Iacci, vicepresidente di Aidp, Associazione per la direzione del personale, che ha curato un volume sul tema. Lo si vede soprattutto nella varietà dei sistemi di monitoraggio utilizzati: Il 46,4 per cento delle multinazionali, quasi la metà, ne impiegano
cinque o sei allo stesso tempo. Appena il 16,7 per cento di quelle italiane arriva alle stesse cifre, la maggior parte si limita a tre indicatori, tipicamente management per obiettivi, incentivi legati al loro raggiungimento e valutazione delle prestazioni.
Ancor più decisivo è il modo in cui questi strumenti vengono applicati. In molte aziende la valutazione delle prestazioni quantifica e premia la performance individuale del lavoratore, ma guarda molto meno, o per nulla, alla strategia di lungo periodo. «Gli obiettivi dei singoli devono essere fissati in modo da incorporare i valori dell’azienda», spiega Luca Vignaga, direttore del personale di Marzotto. «L’apprendimento attraverso i feedback è senza dubbio efficace - continua - ma solo se tutta la struttura è caratterizzata da una solida cultura manageriale ». A cominciare dai singoli capi settore, responsabili del giudizio sui membri del proprio team: devono essere preparati a gestire momenti delicati, potenzialmente stressanti per i dipendenti, come il colloquio di valutazione che ogni anno verifica l’effettivo raggiungimento degli obiettivi e fissa quelli per i mesi futuri. Solo nel 59 per cento delle aziende analizzate da Gso viene assicurata una formazione in questa senso, contro l’86 per cento di quelle multinazionali.
«Ma è anche importante che il giudizio non sia compito esclusivo del diretto superiore, in modo da non essere falsato da pregiudizi», aggiunge Andrea Del Chicca, direttore risorse umane in Ansaldo Energia. «All’interno del nostro ufficio personale c’è un responsabile per ogni area, che collabora con il capo-settore nella misurazione». L’azienda del gruppo Finmeccanica ha adottato un sistema capillare di valutazione del personale. Rivolto non solo alle performance ma, specie per i giovani nuovi assunti, alla definizione di un percorso di crescita all’interno della società: «Valutazione del potenziale al momento della selezione, valutazione della prestazione ogni 3 mesi nei primi 36», racconta Del Chicca. Poi, per chi mostra maggiori potenzialità, il “fastest insight assessment”, un test di orientamento che suggerisce, per esempio, se un ingegnere è più portato versi un ruolo solo tecnico o gestionale. «Nella mia esperienza l’80 per cento dei dipendenti lascia l’azienda per due motivi: perché non va d’accordo con il capo o perché non vede un percorso di crescita», conferma Vignaga.
Sia in Ansaldo che in Marzotto la valutazione della prestazione non è direttamente legata ad un incentivo economico. «Proprio perché il focus è sullo sviluppo delle persone », spiega il manager dell’azienda tessile. «Inoltre un capo fatica a negare soldi ai propri dipendenti e così la valutazione si appiattirebbe verso l’alto ». Senza contare che dietro una performance sotto le aspettative ci possono essere fattori diversi. La misura di prestazione viene quindi combinata con quella di posizione, che valuta la difficoltà del contesto in cui il dipendente ha operato. «E incrociata con quella delle potenzialità - aggiunge Del Chicca - perché non posso penalizzare chi fallisce ma ha grosse capacità di crescita».
Indicatori, quindi, da calibrare con cura, con il giusto equilibrio tra aspetti gli qualitativi e quelli quantitativi, per evitare che l’azienda si trasformi in una “macchina da voti”. Ovvero che la valutazione si riduca a fastidio burocratico, o peggio atomizzi le performance dei dipendenti e dia loro l’impressione di non cogliere la reale sostanza del lavoro: «Il rischio c’è, ma soltanto se in azienda non c’è la giusta cultura », conclude Vignaga. «L’attenzione alle capacità individuali, invece, è necessaria, anche nell’interesse dei lavoratori. Prima della riforma Fornero un licenziato aveva cinque anni, tra cassa integrazione e mobilità, per riqualificarsi. Ora solo 18 mesi: per tutelarsi i dipendenti dovranno essere molto più attenti alla propria crescita professionale».