Roberto Mania, Affari&Finanza, la Repubblica 29/4/2013, 29 aprile 2013
CONFINDUSTRIA, L’ANNO NERO DI SQUINZI
Il patto tra produttori o, nella versione aggiornata, il patto delle fabbriche, si è sgonfiato come un soufflé. È durato lo spazio di un convegno. L’ha archiviato subito pure Giorgio Squinzi che nell’ultima riunione del Direttivo della Confindustria, tra lo sbigottimento generale, ha implicitamente rivendicato il fatto di aver via via raffreddato l’entusiasmo sulla proposta di accordo con i sindacati per salvare l’industria del paese. Peccato che l’idea l’aveva lanciata proprio lui.
Lo ha fatto insieme al presidente della Piccola industria, Vincenzo Boccia, dal palco del Lingotto. Poi è volato negli Stati Uniti, per impegni aziendali. Prima di tutto viene la sua Mapei. Mentre sta arrivando un nuovo governo, non certo con il vento in poppa, per gestire la fase più acuta di questa interminabile recessione. Confindustria stop and go. La Confindustria di Giorgio Squinzi.
Il 23 maggio prossimo Squinzi terrà la sua seconda relazione all’assemblea confindustriale. E non farà autocritica. Perché se c’è una costante nei ragionamenti del presidente degli industriali quella è l’assoluzione della categoria, come se gli ormai due decenni perduti che abbiamo alle spalle non fossero anche il frutto di un ceto imprenditoriale che ha rinunciato a investire, a innovare, a fare fino in fondo il proprio mestiere. Meglio dare la colpa sempre e solo agli altri (che pure, pro quota, ce l’hanno): la pubblica amministrazione inefficiente, il fisco oppressivo, la giustizia civile tartaruga, la politica indecisa, la pubblica amministrazione che non paga i suoi debiti, le banche che non prestano più i soldi, la domanda interna congelata per colpa dei fattori precedenti. Ha detto Squinzi l’anno scorso davanti ai suoi associati, ma con l’assenza significativa del presidente del Consiglio, Mario Monti: «La bassa crescita dell’Italia è determinata dalla difficoltà di fare impresa nel nostro paese». Un leit motiv consolatorio e autoassolutorio. Perché la bassa produttività, che ci sta condannando alla decrescita infelice, dipende, invece, anche da modelli organizzativi inadeguati, dal nanismo cronico delle nostre aziende, da un sistema di relazioni industriali superato, da una bassa formazione della manodopera, dalla mancanza di concorrenza in molti settori. Squinzi lo sa, ma non lo dice. Perché la sua è un’azienda multinazionale che conosce cosa serve per conquistare quote di mercato e creare lavoro e Pil. Ha scelto, però, di fare il portavoce dell’ultimo o del penultimo del carro degli associati. Un sindacato delle imprese (più piccole che grandi), non il partito dei padroni, che aveva la presunzione di presentare una visione del paese. Una scelta low profile, quella di Squinzi, dopo le ambizioni montezemoliane e l’ondivago tatticismo politico di Emma Marcegaglia. Tutto questo la Confindustria di Squinzi l’ha fatto e lo fa con evidenti contraddizioni.
Prima delle elezioni ha presentato a tutti i partiti una pomposa agenda di legislatura in grado di mobilitare 316 miliardi di risorse pubbliche entro il 2018, far crescere il Pil, l’occupazione e via dicendo. Poi, Squinzi e Confindustria, sono rimasti senza interlocutore, cioè senza governo. Così dopo l’agenda, che non tutti in Confindustria avevano condiviso, è arrivato il patto, quasi in contrapposizione, questa volta, con l’immobilismo di una politica frastornata dal risultato delle urne. Ma il patto non c’era nell’agenda, è comparso strada facendo, più — ed è paradossale pensando al profilo di Squinzi — per ragioni di comunicazione che di contenuto. Contraddizioni che Giuliano Cazzola, candidato non eletto di Scelta civica dopo una legislatura con il Pdl e una lunga militanza nella Cgil, legge così: «La Confindustria se vuole agganciare la Cgil deve metterla in politica, scomodare il patrio governo». Rivendicare, chiedere. Tatticismo: la “filosofia della lagna”, secondo il Ma il patto, questa volta, è anche il segno della debolezza delle associazioni di interesse. Per colpa della nuova ondata di populismo che spazza via qualsiasi mediazione tra cittadini e governo, partiti, sindacati e, infine, associazione di imprese. La crisi dei partiti è anche la crisi delle parti sociali, strutture pesanti organizzate anch’esse — come analizza Marco Revelli nel suo ultimo libro “Finale di partito” — secondo un modello fordista ormai insostenibile e scarsamente rappresentativo. Così l’idea del patto concertativo appartiene al passato quando si pensava ci fosse la polpa da spartirsi che alla fine, però, si è trasformata in debito a carico di tutti. Ora c’è il fiscal compact che azzera lo spazio dello scambio a livello centrale e fissa la politica economica a livello europeo. Ma Confindustria e i sindacati vivono ancora al centro perché è nel contratto nazionale che ritrovano la loro identità, la loro stessa ragione d’essere e possono alimentare le conservatrici burocrazie centrali con il loro efficace potere di interdizione. Nel patto Confindustria e sindacati si guardano allo specchio. E si ritrovano invecchiati. L’ultimo a dirlo, senza per questo seguire Marchionne nel clamoroso strappo da Viale dell’Astronomia, è stato Guido Barilla: «Confindustria è una parte significativa dell’inefficienza del sistema ed è l’esatta faccia di un vuoto politico e culturale. Non è Squinzi, ma l’istituzione di per sé che è identica a tutte le altre. Il tempo è scaduto anche per Confindustria. Il tempo è scaduto cinque anni fa». Ma intanto l’associazione delle imprese manifatturiere si è imbolsita con il pesante arrivo (ai tempi della presidenza di Montezemolo) delle aziende controllate dallo Stato (Eni, Enel, Poste, Finmeccanica) che ora vogliono esserci nei posti che contano con i manager, però, perché il padrone non c’è. Il che non è lo stesso. Questa è una mutagenesi. Ormai nei convegni e assemblee confindustriali è sempre più rara la partecipazione dei nostri grandi capitalisti, Diego Della Valle, Leonardo Del Vecchio, i Benetton, i De Benedetti, i Ferrero, i Barilla stessi, i Caltagirone, Renzo Rosso, e via dicendo. Anche Luca Cordero di Montezemolo è scomparso. Sono segnali di una crisi strutturale di rappresentatività mentre le baruffe interne esplodono come nel caso della fuoriuscita delle 2.500 aziende aderenti alla Finco, l’associazione di secondo livello delle imprese di servizi per le costruzioni. Tutto per vecchie ruggini, sovrapposizioni come ce ne sono tante in Confindustria, e una questione burocratica: il perimetro associativo. Squinzi ha lasciato che gestissero la diatriba gli apparati insieme ai probiviri. E alla fine non gli è dispiaciuto che la Finco sia uscita.
Non è facile cambiare Confindustria. All’inizio del mandato Squinzi ha istituito una commissione per la riforma del sistema associativo. Un passo in direzione del suo antagonista nella corsa al vertice di Viale dell’Astronomia Alberto Bombassei (ora senatore di Scelta civica) che parlò di rifondare la confederazione. La commissione la presiede Carlo Pesenti che però conosce poco la complessa macchina confindustriale. E dentro si litiga: imprenditori contro i “vecchi” direttori, i veri potenti del sistema; giovani e piccole imprese in trincea; territori contro il centro confederale. Nessuno vuole rinunciare a qualcosa in una macchina che costa 500 milioni di euro l’anno contro i neanche 30 milioni delle confindustrie inglese e francese. Quando in una recente riunione del Direttivo, l’ex presidente Luigi Abete ha chiesto a Squinzi un’opinione sul lavoro della commissione, il patron della Mapei ha risposto che lui con Pesenti «tratta solo del prezzo del cemento». Troppo poco. La proposta dei commissari, non quella di Squinzi, dunque, arriverà entro la fine dell’anno. Ma nessuno può escludere che tutto resti uguale a prima o che la riforma venga bocciata dalla base. «Forse è meglio occuparsene... «, ha chiosato Abete.
All’attivo del primo anno di Squinzi c’è comunque il recupero del rapporto con tutti i sindacati (è della scorsa settimana l’intesa anche con la Cgil per l’attuazione di fatto dell’accordo separato sulla produttività) e il decreto per lo sblocco di 40 miliardi di debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese, in particolare delle più piccole. Su questa vicenda ha costruito un inedito e proficuo asse con il presidente Giorgio Napolitano. Ha fatto il leader degli industriali.