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 2013  aprile 28 Domenica calendario

LISETTA CARMI

Cisternino è un piccolo luogo della Puglia arroccato nella Valle d’Itria a nord del Salento. Famoso non solo perché eletto come uno dei pochi posti al riparo dalla terrificante (e sbagliata) profezia Maya. Ma anche perché da oltre quarant’anni ci vive Lisetta Carmi, donna assai singolare, dalle molte vite come racconta un recente libro, che gliene attribuisce ben cinque.
Che cosa ha in più o di diverso questa signora che a quasi novant’anni continua imperturbabile a svolgere ciò che di solito si fa con la metà degli anni? È stata concertista di livello internazionale, fotografa straordinaria, ha fondato un centro spirituale di ispirazione induista, e oggi si dedica alla pittura e alla calligrafia cinese. Verrebbe voglia di pensare a una dilettante — magari di talento — ma pur sempre ascrivibile a quel genere di persone dedite nella loro inquietudine al mero impulso del fare. In realtà c’è qualcosa di più complesso nella storia di questa donna carismatica che è andata avanti per salti, svolte, rotture, senza tuttavia rinnegare quello che nel frattempo aveva realizzato. Confessa di sentirsi ancora una vecchia comunista, fugacemente iscritta al partito che abbandonò in quanto «orrendamente staliniano». Aggiunge che il suo comunismo non ha nulla di ideologico o di palingenetico: «È solo caratteriale, per quel senso antipossessivo che ho nel rapporto con le persone e le cose». Mi ha colpito un film che su di lei ha girato un regista sensibile come Daniele Segre. Vi si coglie una dedizione rara alla verità e all’esistenza. Lisetta Carmi veste con semplicità: una lunga gonna ricavata da stoffe indiane, un maglione di seta, al collo un mala, la collana di sandalo per le preghiere a Shiva, e un ritratto del suo maestro indiano, Babaji.
Verità ed esistenza cosa rappresentano per lei?
«Sono due mondi che, per colpa nostra, si incontrano raramente. Mi alzo spesso all’alba. E l’alba non ha mai cancellato il mondo. Lo rinnova. Ecco una verità che entra nella nostra vita. Ci appartiene, come il respiro. In tutto quel che vedo, leggo la grazia dello sforzo. Quello che ci viene donato dobbiamo guadagnarcelo».
Come?
«Con il sacrificio, l’amore e la disciplina. Sa perché i nostri politici sono oggetto del pubblico disprezzo? Perché loro per primi si disprezzano. Hanno perso il senso del mandato, amano se stessi ma non ciò che fanno. Sono stata una concertista, qualcuno dice anche di un certo talento. Ho studiato e suonato il pianoforte per trent’anni. Il mio maestro — che era poi un allievo di Ferruccio Busoni — ci insegnava a toccare il piano come fosse una cosa viva. Ho adorato la musica. Ma non so se la musica abbia sempre adorato me».
Cosa intende?
«Certe volte da piccola mi sentivo terribilmente isolata. Non ero tanto felice, in quello stare da sola davanti al pianoforte. Per le mie origini ebraiche fui espulsa a 14 anni dalle scuole italiane. I genitori, benestanti, avevano spedito i miei fratelli in Svizzera e io restai a studiare il pianoforte. Volevo farlo, con il mio maestro. O meglio fu lui a imporsi. Mi piaceva moltissimo suonare. Quando sfollammo verso Alessandria papà fece portare il pianoforte su un carro trainato da buoi. E fu allora che decisi che avrei fatto la concertista».
Con quali risultati?
«Eccellenti. Esordii a Bayreuth e negli anni ho girato parte del mondo. Scoprii che non mi piaceva troppo suonare in pubblico. Faticavo a trovare una vera sintonia. Dopo ogni concerto tornavo nella mia Genova, la città dove sono nata. E mi chiedevo se ero adatta a quella vita. Poi, quando nel 1960 ci furono le rivolte in piazza contro i fascisti, appoggiati dal governo di allora, presi parte alle manifestazioni. Il mio maestro mi disse che stavo mettendo a repentaglio la carriera. Gli risposi che se le mie mani erano più importanti della sofferenza della gente era meglio che smettessi di suonare. E ho smesso. Ero stata amica di Luigi Dallapiccola, di Luigi Nono ma sapevo che li avrei ritrovati sotto una forma diversa».
A quel punto scopre la fotografia.
«Sono convinta che se sai suonare uno strumento puoi fare qualunque cosa nella vita. Perché la musica ti dà un anima. E la fotografia fu il corpo in cui la incarnai. In quel mondo di immagini erano accadute molte cose. C’erano state figure leggendarie come Robert Capa o Henri Cartier-Bresson e da noi personaggi come Ugo Mulas o Mario Dondero. Ma non volevo misurarmi con la loro bravura. Per me la fotografia era un modo diverso di capire, di entrare nel mistero dell’umano ».
E c’è riuscita?
«Non lo so. Ogni qualvolta ho pensato di toccare il mistero, magari solo sfiorandolo, mi sono accorta che la forza è nella sua indicibilità. E che le fotografie sono l’ombra di questo indicibile. Sono stata nella favelas venezuelane, in Messico, in Irlanda, a Belfast durante il conflitto con gli inglesi, in Afghanistan e nel Sud d’Italia. Tra i Provos di Amsterdam. Ho creduto che attraverso la fotografia avrei dato voce ai poveri, ai diseredati a quella grande parte dell’umanità sepolta dal silenzio e dalla distrazione».
«Per me era un impulso che arrivava non tanto dall’essere comunista ma ebrea. L’appartenenza a questo popolo, che nei secoli ha sofferto, mi legittimava nella denuncia. Senza colore né pregiudizio. Tanto è vero che, nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni volli andare in Israele per vedere cosa avevano fatto agli arabi. Si parlava di campi profughi in cui i bambini vivevano in condizioni terribili. Andai da Livio Garzanti,
l’editore, che era un caro amico di famiglia, e gli chiesi se poteva finanziarmi il viaggio. Gli dissi cosa volevo fare. Mi rispose che non si sarebbe mai messo contro gli ebrei».
«Tentai di spiegargli che non era una questione di razza ma di umanità. Non ci fu nulla da fare. Allora mi rivolsi a Giangiacomo Feltrinelli che mi diede 400mila lire. Poca roba, ma sufficiente per partire e stare lì per un po’».
Lei è diventata famosa, suo malgrado, per una serie di reportage che per gli anni Sessanta furono sorprendenti. Oltre
ai campi profughi, al cimitero di Staglieno, al porto di Genova, dove nessuno fino ad allora era mai entrato, ci sono la serie di foto sui travestiti e quelle dedicate a Ezra Pound. Come è nata l’idea di fotografare i travestiti di Genova?
«Sono entrata nel loro ambiente per caso. Era l’ultimo dell’anno del 1965. Fui invitata da un amico a una loro festa. Portai con me la Leica. Provai sensazioni strane. Quella sera li vidi ballare, festeggiare, gioire. Ma al tempo stesso ebbi la percezione di una grande sofferenza. Cominciai a tentare di capire perché volessero essere delle donne e perché proprio per questo desiderio fossero considerati diversi, emarginati, perseguitati dalla famiglia e dalla società. Iniziai a frequentarli nella convinzione che anche loro vivevano, posso dirlo?, come gli ebrei, in un ghetto».
«Per quasi sei anni. Avevo in animo di realizzare un libro di immagini sul loro mondo. A quel tempo si unì anche lo psicoanalista Elvio Fachinelli. Spesso li vedevamo assieme. Un giorno Elvio mi chiese se poteva incontrarli senza la mia presenza. Gli dissi che non c’era problema. E quando si presentò da solo, cominciarono a provocarlo e a prenderlo in giro. Ripresi a scortarlo. In quel mondo che poteva sembrare squallido e derisorio Elvio seppe vedere qualcosa di tremendo: il dolore del diverso. I trans di oggi — con le bocche rifatte, i glutei scolpiti, i seni rigonfi — sembrano perfettamente in linea con questi tempi volgari. I travestiti di allora non ci sono più. Avevano nomi esotici: la Gitana, che era stata l’amante di De Pisis, la Morena — da cui De André si era ispirato per il suo — che mi chiamò in punto di morte per dirmi che aveva conservato gelosamente il libro che le avevo dedicato. Sono tutti scomparsi. Muoiono relativamente giovani. La sola ancora in vita è la Nevia, che era bella come Helmut Berger e oggi sembra una vecchia signora dolce e sola».
«Era il 1966 andai a trovarlo a Sant’Ambrogio di Rapallo dove viveva. Ci incrociammo per pochi minuti. Aprì la porta avvolto in una lunga vestaglia nera, i capelli irti e lo sguardo che sembrava letteralmente perso nell’infinito. Non disse una parola. Scattai un numero impressionante di foto che poi hanno fatto il giro del mondo».
«Perché c’è un tempo per ogni cosa. Sono stata fotografa per vent’anni. Poi, nel 1976, durante un viaggio in India, ho conosciuto il mio maestro spirituale Herakhan Baba, che i fedeli chiamavano Babaji. Da Delhi presi un autobus per andare a Jaipur ad incontrarlo. Mi accolse seduto su un letto adorno di fiori, con i fedeli che preparavano ghirlande. C’era una serenità indescrivibile. Mi disse: devi conservare la purezza del tuo cuore. E fare una cosa per me».
«Di creare un Ashram, un luogo di meditazione in Italia».
Non ha mai avuto la sensazione di agire sotto una suggestione?
«Capisco che accostarsi all’Oriente possa significare fraintenderne i codici o assimilarne la parte più folcloristica. In realtà, per me che ero ebrea non ha significato la rinuncia ai miei valori, alla mia storia. Ma vederli in una prospettiva nuova: “Sii felice. Se tu sei felice, anche il mondo lo è”, diceva Babaji. Ho creato l’Ashram con questo spirito. Non lontano da qui. Nella Valle d’Itria. All’inizio venivano tossici, sieropositivi, gente stramba. Col tempo è diventato un luogo di accoglienza e di apprendimento per migliaia di persone».
«Bisogna distaccarsi dal possesso come dal passato. Non rimpiango quello che ho fatto e se è stato fatto bene qualcuno ne avrà gioito. Mi conforta pensarlo. Oggi vivo studiando e dipingendo la calligrafia cinese. Le può sembrare la stravaganza di una vecchia pazza. In quei segni c’è tutta la bellezza e la sapienza di una civiltà che ho imparato ad amare».