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 2013  aprile 29 Lunedì calendario

LA RIVINCITA DELLA BALENA BIANCA

EPOI ci sarebbe quest’altra cosetta: che sono tornati i democristiani. E rispetto alla pretesa novità, lo si dice sapendo che qualsiasi scetticismo è pienamente giustificato.
PER anni e anni, infatti, tutta una generazione di giornalisti politici cresciuti a pane e Zac, Fanfani e Andreotti, De Mita, Forlani e Donat Cattin, altro non ha fatto che interpretare ogni movimento, o spostamento, o passaggio come un rientro in campo, finalmente, della politica, e cioè della Dc. Era un po’ la nostalgia a generare l’equivoco. Ma bastava una rimpatriata di reduci alla Domus Mariae, una ben augurante fibrillazione pseudocentrista o anche solo un vago documento del professor Pellegrino Capaldo perché le trombe, fin lì riposte nei loro polverosi contenitori, tornassero a squillare il ritorno dello scudo crociato, perepèperepè.
Nel frattempo Bossi faceva sconquassi, Berlusconi ingaggiava drammatiche gare di burlesque con il mondo intero, D’Alema e Veltroni si contendevano i vari partiti che cambiavano nome, Casini lasciamo perdere, ma la Dc non tornava per niente, morta e sepolta com’era nel giardino dei ricordi e anche dei rimpianti — per quanto Marco Follini, cui si deve una rassegna di quattro o cinque libri di argomento democristiano, non si stancasse di ripetere: «Attenzione, la Dc non c’è più, ma i democristiani ci sono ancora». Eccome, ovvero: appunto. Per mettere le mani avanti si può attenuare l’impatto dicendo che sono tornati di moda. Uno di loro, Enrico Letta, sta da ieri a Palazzo Chigi. Un altro, Matteo Renzi, si sta per prendere il Pd. Un altro ancora, Alfano, già delegato del Movimento giovanile per la Sicilia e così seguace di Martinazzoli da essersi recato sulla tomba dell’ultimo segretario democristiano, è al Viminale.
Non a torto, nel suo caso, c’è chi sostiene che il lungo bagno nelle acque berlusconiane, dal lodo ad personam alle usanze cortigiane con tanto di melopea idolatrica “Meno male che Silvio c’è” abbia cancellato nel giovane Angelino ogni imprinting democristoide.
E tuttavia fra i vantaggi e i viziacci di quella particolarissima specie antropologica era senz’altro da annoverare una certa efficace, per non dire opportunistica adattabilità. Per cui se mai un giorno il ministro dell’Interno riuscirà a restituire al Cavaliere la libertà di andarsene a costruire ospedali in giro per il Terzo Mondo, come spesso annunciato, c’è da scommettere che l’avrà fatto in modo molto, ma molto democristiano. Quanto al presidente
del Consiglio in attesa di fiducia, l’altra sera a Porta a porta Follini si è meravigliato di sentirsi attribuire una frase che non ricordava: «Letta è l’ultimo frutto del grande albero democristiano ». Ma al netto della retorica da talkshow, la sottoscrive aggiungendo che vede in lui un tratto umano e soprattutto, in un tempo di autodidatti, una scuola politica.
I maestri di Letta sono stati: Nino Andreatta, Romano Prodi e lo zio Gianni. I primi due, c’è da dire, anche piuttosto puntuti, mentre a proposito del terzo è irresistibile rammentare
che qualcosa del conte zio dei Promessi sposi Letta senjor ce l’avrebbe pure: “Un certo credito”, senza dubbio; “ma nel farlo valere — osserva Manzoni — e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno”. Là dove il punto decisivo sta nel garbo rotondo, nel tocco delicato, nell’inventiva suadente che pare di cogliere nella composizione del presente governo.
Ovvio che in Letta junior si coglie un salto evolutivo. Non tanto nelle sbandierate passioni pop o in quel gioco, Subbuteo, che al limite può considerarsi come l’aggiornamento del vecchio
calciobalilla dell’oratorio. Né pare troppo significativo che sia lui che Renzi abbiano impegnato l’aggettivo “sexy” in politica (il sindaco di Firenze per il titolo di un libro che poi fu cambiato; il presidente per auspicare un certo tipo di Pd). È che il “giovane” Enrico, più di tanti suoi predecessori, è assai proiettato sulla politica internazionale, parla le lingue, è anche spiritoso, pure con lampi che non si vorrebbero qui definire di lieve cinismo, ma insomma dai quali, non sembri casuale il ritorno anche di Manzoni, “traluce dei padri la fiera virtù”. A tutto ciò si aggiunge — e fa grande effetto in un tempo di cialtroni maleducati — la competenza e la cortesia. L’una e l’altra si sposavano, nella variante esistenziale democristiana, con l’essere, come si diceva con mille sottintesi, “navigati”. Letta pure lo è. Basti pensare su quanti pochi nemici può contare; o anche al rapporto di rivalità con Franceschini, cui ha riconosciuto un posto strategico nel suo governo.
Esistevano del resto dc caldi e dc freddi. Lui appartiene alla seconda specie. Sorvegliato, misurato, disponibile, ma parecchio determinato. Solo in secondo momento si prenderà atto che può anche essere spregiudicato. Non lui come persona, ma le circostanze le opportunità che gli si prospettano. Per quanto riguarda l’arte specifica di fregare gli avversari i canoni democristiani prevedevano di non fare mai qualcosa contro qualcuno, ma di operare affiché altre entità lo facessero, però mai fino in fondo. A tale proposito, e parziale conferma del revival, si coglie l’occasione non solo per segnalare che è appena uscito un aureo libricino di Giuliano Ramazzina, dal significativo titolo “Muoia Sansone ma non i dorotei” (Marcianum),
ma anche per ricordare un’indimenticabile formula del giornalista Giuseppe Crescimbeni secondo il quale «i democristiani ti accecano, ma dopo — e qui si fermava in una pausa molto teatrale — ti passano il cane lupo”. Come dire: la vita, pur con tutti i suoi guai, prosegue. Ecco, sostiene Follini, per vent’anni si è combattuta in Italia una guerra senza vincitori e troppi vinti. Capricci, ostentazioni, risse, trasgressioni di ogni sorta. C’era da celebrare un rito di pacificazione. Serviva un democristiano, Letta, e un comunista, Napolitano. Gli impicci restano, ma la suggestione, pensa un po’, sconfina addirittura nella speranza.