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 2013  aprile 29 Lunedì calendario

IL MISTERO DELLA PISTOLA

UN VIAGGIO con alcuni punti fermi e qualche vuoto. Come la storia della Beretta 7.65 che ne è il sigillo.
COME in ogni storia capace di farsi biografia di una Nazione o, quantomeno, epifania della disperazione incubata dalla sua crisi, si scopre ora e troppo tardi che, come ogni viaggio solitario e senza ritorno, quello di Luigi Preiti, classe 1964, calabrese di Rosarno, era cominciato molto tempo fa. In silenzio e nella distratta indifferenza dei più.
Perché troppo simile e dunque indistinto, nelle parole e nei gesti quotidiani, da quello dei migliaia che in questi ultimi anni hanno perso tutto. E tutto insieme. La famiglia, il lavoro, la dignità, la speranza di uno straccio di futuro. Non c’è follia nella storia di Luigi, assicura oggi chi lo ha conosciuto e continua a volergli bene. Il fratello Arcangelo, che chiede solennemente «scusa agli italiani», l’ex moglie e madre di suo figlio Ivana, i suoi cugini, i suoi anziani genitori, il padre Michelangelo, la madre Polsina. Come pure chi lo ha interrogato in queste ore. Non c’è odio — giura lui ai pubblici ministeri cui consegna la sua confessione. C’è piuttosto il fallimento precoce e invisibile di un’esistenza che se ne va a fondo insieme al sogno collettivo del Paese di un benessere diffuso, acquisito e apparentemente non negoziabile. Quello che, nei primi anni ’90, spinge Luigi a mettersi su un treno che dalla Calabria è diretto al Nord (come aveva fatto il padre Michelangelo, rimasto in Germania per 30 anni) per cercare fortuna nel basso Piemonte, nella provincia di Alessandria, in quel di Predosa, dove quelli come lui, che è un eccellente piastrellista, li chiamano “tapulanti”. Gli edili che lavorano a giornata o a settimana nei piccoli cantieri di provincia.
Luigi è un uomo taciturno e solido. Non ha né modi, né manifestazioni violente. Scansa la politica. Non fugge la sua terra per ragioni diverse o inconfessabili che non siano la ricerca di un lavoro che lo liberi dall’alternativa tra il bisogno e la sudditanza alle cosche. Perché se è vero — come si è ascoltato nelle più recenti intercettazioni nelle indagini sulla criminalità organizzata — che a Rosarno su 2.500 anime la ’ndrangheta ha “500 uomini a disposizione”, è altrettanto vero che la famiglia Preiti, quanto meno il suo nucleo originario, è pulita. A Predosa, Luigi mette in piedi una ditta individuale e le cose, almeno all’inizio, sembrano girare per il verso giusto. Tanto che lo raggiunge anche il fratello Arcangelo, che, come lui, lì resterà a vivere. Si sposa una prima volta con Tiziana, ma non dura a lungo. Poi, incontra Ivana, che, come Luigi, si fatica l’esistenza con le mani, che affonda nelle terre coltivate di una grande azienda della zona. Undici anni fa, mettono al mondo un figlio. Vanno a vivere in una casa popolare. E forse pensano persino di averla fatta, perché nella mobilità della nuova Italia, Ivana lascia la campagna e trova lavoro in un call center.
In realtà, la tempesta perfetta che sta per inghiottire i mercati e le economie dell’Occidente lo reclama tra le sue prime vittime. La ditta individuale di Luigi comincia ad accumulare debiti che si sommano a crediti non riscossi. E — per quanto Ivana racconta — lui allora non infila lo sportello di una banca che comunque non sarebbe stata disposta a fargli credito, ma la scorciatoia che ti perde una seconda volta e per sempre. Quella delle scommesse. Sul biliardo. Quella che lo spinge ancora più sott’acqua e gli fa perdere le uniche cose che gli sono rimaste. Suo figlio e la donna con cui lo ha messo al mondo.
Nel 2011, quando lascia la famiglia e rimette le sue cose in valigia per percorrere a ritroso e da sconfitto il
tragitto che ha fatto 20 anni prima, Luigi non ha altro dove andare che la casa dei genitori a Rosarno, il paese dove sono rimaste a vivere le due sorelle, Girolama e Marina. Non ha più né un lavoro, né una famiglia. Ma gira con una pistola in tasca, pur non avendo un porto d’armi. È una Beretta 7.65 con la matricola abrasa. Quella che scaricherà di fronte al Parlamento contro due innocenti colpevoli di vestire l’uniforme dello Stacela
to. Dirà ieri ai pm di averla acquistata nell’angiporto di Genova nel 2009. Anche se non gli crede nessuno. Perché — sostengono i carabinieri — quella pistola ha le stimmate dell’arma che arriva dritta dritta dal supermarket Calabria, dove è merce comune.
Del resto, che se ne faccia di quell’arnese, Luigi non è in grado di spiegarlo. Mentre è un fatto che sa usarla. Anche se — giurano i cugini che lo riaccolgono a Rosarno — l’uomo che torna a casa dopo vent’anni non sembra avere affatto il tratto sociopatico e ossessivo del “lone wolf”, del lupo solitario che cova vendetta e in cui deciderà di trasformarsi in piazza Montecitorio. Al contrario, — raccontano il padre Michelangelo e la madre Polsina — Luigi continua a sbattersi tra la Calabria e il Piemonte, dove va a trovare il figlio quando riesce, per mettere insieme qualche lavoretto che gli consenta di continuare a onorare l’assegno alimentare che, ogni mese, fa avere ad Ivana per il figlio. Anche perché nel frattempo ha debiti con Equitalia per 5mila euro.
È un fatto che nessuno intercetti la sua deriva. L’attimo in cui il suo fallimento trova finalmente un solo colpevole. Il Palazzo. La Politica. Né che qualcuno colga le pulsioni suicide che — dirà lui nel corso della sua confessione — avrebbero dovuto sigillare il suo gesto. E a cui — come per la pistola — i carabinieri tendono a non credere, anche perché nessuno avrebbe visto davvero Luigi puntarsi alla testa un’arma peraltro ormai scarica. I prossimi giorni diranno dunque se a questo canovaccio manca o meno ancora qualche pezzo in grado di modificarne il segno e il senso. Se insomma nella solitudine dell’uomo arrivato da Rosarno non abbiano fatto capolino interferenze. A oggi, si può dire che la storia di Luigi racconta ciò che mostra. E ce n’è già abbastanza per non tirare alcun sospiro di sollievo.