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 2013  aprile 28 Domenica calendario

TRAGEDIA IN BANGLADESH, IL RUOLO DI CHI ACQUISTA

(due articoli) -

Privo dei permessi necessari, edificato su un terreno ’friabile’, con materiali considerati scadenti. A quattro giorni dal disastro del Bangladesh, con la rivolta degli “schiavi” che non si spegne e la corsa contro il tempo per salvare gli o­perai seppelliti vivi, emergono nuovi raccapriccianti sul Rana Plaza, il palazzo accartocciatosi su se stes­so e divenuto la tomba per almeno 354 persone. Emdadul Islam, ingegnere capo della Capital Deve­lopment Authority, l’autorità che si occupa di con­cessioni edilizie, ha spiegato che il proprietario del Rana Plaza non aveva ricevuto i permessi necessa­ri. Non solo: tre piani sono stati aggiunti illegalmente al progetto originario, che ne prevedeva cinque. «Sa­var, dove sorge il palazzo crollato, non è una zona industriale. Per questo nessuna fabbrica poteva es­sere ospitato al suo interno», ha spiegato il funzio­nario alla Reuters.
Ieri sono scattate le prime manette. Otto le persone fermate. Fra loro, come informa l’agenzia Fides, ci sono Bazlus Samad, proprietario della azienda “New Wave” che avrebbe intimato agli operai di conti­nuare il lavoro nonostante l’instabilità dell’edificio, e Mahmudur Rahaman Tapash, amministratore de­legato di una delle tre fabbriche che erano nel pa­lazzo. Manca all’appello il proprietario del Rana Pla­za: la polizia teme possa abbandonare il Paese. Il bi­lancio delle vittime è salito a 354, i dispersi sono ol­tre 760. A loro è andata la commossa partecipazio­ne del Papa attraverso Twitter: «Unitevi a me nella preghiera per le vittime della tragedia, che Dio con­ceda conforto e forza alle loro famiglie». Altri 45 su­perstiti sono stati tratti in salvo ieri, grazie a dei tun­nel scavati tra i lastroni di cemento armato. In due giorni sono stati almeno 2mila le persone estratte. E nel dolore si è accesa una “piccola” luce. Tra le per­sone estratte vive c’è anche una donna che ha par­torito un bambino mentre era intrappolata.
La rabbia degli operai non si è spenta. In migliaia so­no scesi nuovamente in piazza alla periferia di Dac­ca, per protestare contro le autorità accusate di non aver prevenuto il crollo. I dimostranti hanno bloc­cato il traffico in diverse località costringendo la po­lizia a intervenire con bastoni e gas lacrimogeni: 50 i feriti. Le aziende di abbigliamento sono rimaste chiuse per il rischio di atti di vandalismo. L’associa­zione industriale Bangladesh Garment Manufactu­rers and Exporters Association ha deciso di sospen­dere la produzione anche oggi. «Le richieste sono la legittima sicurezza sul lavoro – ha spiegato a Fides padre Franco Cagnasso, missionario Pime a Dacca – anche perché episodi di tal genere si susseguono e il problema è ampio e diffuso».
Rischia di andare in frantumi un sistema produt­tivo che è la spina dorsale della (fragile) economia del Bangladesh. Il tessile occupa 3,6 milioni di per­sone e costituisce l’80% delle esportazioni del Pae­se: il 60% degli abiti prodotti finisce in Europa, il 23 negli Stati Uniti. Un sistema che però sembra reggersi su un pilastro inumano: lo sfruttamento del lavoro.

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DA ROMA LUCA LIVERANI -
Un sistema economico che per massimizzare il profitto schia­vizza i lavoratori. Ma colpisce anche noi: danneggiando l’ambiente, delocalizzando il lavoro, provocando flussi migratori. Dunque è un sistema che va cambiato, e subito: con cam­pagne di consumo critico che costrin­gano le aziende a sedersi attorno a un tavolo con i sindacati e le ong. In atte­sa che la politica riconquisti la sua au­tonomia dall’economia. Le analisi del­le ong e degli esperti di commercio e­quo e diritti dei lavoratori concordano. Quale ruolo dunque hanno i consu­matori? Deborah Lucchetti è la porta­voce della Campagna Abiti Puliti: «Noi non siamo una campagna di boicot­taggio – premette – azione che usiamo solo come extrema ratio perché met­te a rischio posti, mentre noi voglia­mo la tutela dei lavoratori, riconver­tendo le aziende a una produzione e­tica e sostenibile». Una via inevitabile in Bangladesh, «dove sono oltre tre mi­lioni i lavoratori nel tessile, persone che rischiano ogni giorno di perdere la vita nelle aziende nate in zone fran­che. E producono non solo griffe , ma anche i capi low cost degli ipermerca­ti, economici perché privi dei costi ac­cessori. Il sistema è lo stesso».
A Savar – spiega – si produceva per grandi marchi di caratura internazio­nale. Abiti Puliti ricorda i 112 morti cin­que mesi fa nell’incendio della fabbri­ca bengalese Tazreen, i quasi 300 a set­tembre nell’incendio della pachistana Ali Enterprises. «Non possiamo conti­nuare ad assistere a questo sacrificio di vite per a totale irresponsabilità di un sistema produttivo basato sulla com­petizione al ribasso». Ora «le famiglie delle vittime e i feriti senza reddito hanno diritto a cure e risarcimenti da parte delle imprese coinvolte, oltre a giustizia immediata».
Oltre la denuncia, cosa si può fare? «Convincere i marchi che si riforni­scono in Bangladesh a firmare subito il programma di azione messo ap­punto dalla Campagna e dai sindaca­ti locali e globali: ispezioni indipen­denti negli edifici, formazione dei la­voratori sui diritti, informazione pub­blica, revisione delle norme di sicu­rezza ». Un libro dei sogni? «No, è già stato sottoscritto lo scorso anno dalla statunitense PVH Corp, proprietaria di Calvin Klein e Tommy Hilfiger e dal distributore tedesco Tchibo».
Variazioni di prezzo minime al detta­glio «nei capi griffati come quelli low cost» permetterebbero di raddoppia­re gli stipendi, oggi in media di 38 dol­lari al mese per 12 ore al giorno». Il cambiamento dunque «non passerà per la politica, lenta e corrotta, ma at­traverso tavoli con sindacati, ong, campagne, imprese. Abbiamo già ot­tenuto risarcimenti. Le regole non si cambiano se non si modificano situa­zioni concrete attraverso laboratori prepolitici». Oggi c’è «un riferimento giuridico importante: i Principi guida del 2011 per l’attuazione delle linee O­nu su diritti umani e imprese multi­nazionali.
Paolo Beccegato è il responsabile per la Caritas italiana dell’area interna­zionale. E conosce bene la regione: «Abbiamo contatti in tutto il subcon­tinente indiano ma il Bangladesh, do­ve sono stato di recente, è uno dei Pae­si che conosco meglio. Dall’era della globalizzazione siamo passati all’era della consapevolezza: le informazioni circolano e le linee di discernimento sono chiare. Anche la Caritas in veri­tate dice che l’acquisto è un atto mo­rale, non solo economico. Come cit­tadini possiamo esercitare azioni ver­so aziende che adottano pratiche i­naccettabili, significative per tutto il settore. E spingere le organizzazioni internazionali a premere sui governi che hanno lasciato campo libero al mercato».
«La globalizzazione ha portato, per la responsabilità delle aziende multina­zionali, allo sfruttamento estremo del­l’uomo », constata Francuccio Gesual­di, coordinatore del Centro nuovo mo­dello di sviluppo (Cnms), studioso del­la globalizzazione e allievo di don Lo­renzo Milani. «La politica – dice – ha ceduto alle sirene e ai ricatti dell’eco­nomia. E oggi il mercato, come un King Kong sul grattacielo, semina il terrore. Il sistema punta a produrre al costo più basso possibile, nel prezzo di un prodotto ci sono voci gonfiate: del co­sto di un paio di scarpe sportive a chi le produce va l’1%, mentre l’8 è pub­blicità, il 30 distribuzione, il 10 profit­ti... ». Per Gesualdi «basterebbe ridurre di qualche centesimo alcune voci per ga­rantire condizioni salariale più digni­tose ». Per il coordinatore del Cnms «non è vero che i marchi sono costret­ti a questo per restare sul mercato: non rinunciano a quote altissime di profit­to ». Siamo tutti in pericolo: «A noi non crollano addosso i muri delle fabbri­che, perché le fabbriche le portano ol­treconfine ».