Niccolò Zancan, La Stampa 25/4/2013, 25 aprile 2013
S. ANNA DI STAZZEMA L’ULTIMO CARNEFICE NON VUOLE RICORDARE
L’ ultima speranza è dietro questo portone di legno giallo. «Attenti al cane», c’è scritto. In via Haupstrasse tira vento. Passa il camioncino dell’immondizia a raccogliere i sacchetti lasciati sul ciglio della strada. Una signora con i capelli bianchi ricci accelera le sue pedalate per diffidenza. Siamo degli intrusi. È un paese perso nelle foreste. Settanta chilometri da Berlino. Oblio in terra. Rumore di zappe, cinguettio di uccelli. E dietro al portone, c’è un uomo di novant’anni che può dire per la prima volta quello che nessuno ha mai detto.
Karl Gropler è uno dei dieci ufficiali delle SS condannati all’ergastolo per l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema. Otto sono morti. Gli ultimi due, quest’anno. Il nono è il comandante Gerhard Sommer. Non si è mai fatto interrogare. È ricoverato in una casa di riposo di Amburgo. Neppure viene a rispondere al telefono. E comunque, per il procuratore militare Marco De Paolis: «È sempre rimasto fedele all’ideologia nazista». Resta il sergente Gropler. L’ultimo carnefice. L’ultimo testimone. L’ultimochepuòdireunaparola di comprensione e pietà sulla prima strage di civili in Italia, alla fine della Seconda guerra mondiale.
Il sergente ha firmato due verbali. Il primo in qualità di testimone: «Siamo saliti in cima al monte. Io e altri soldati tedeschi abbiamo accompagnato un gruppo di civili che dovevano riunirsi sulla piazza davanti alla chiesa...». Ricorda di essere stato a Sant’Anna di Stazzema la mattina del 12 agosto 1944. Ma nel verbale successivo, quello da indagato, non ricorda più nulla. Al punto che il procuratore De Paolis sbotta: «Ho l’impressione che lei ci stia prendendo in giro». Suoniamo al campanello.
Per primo esce il nipote. È un ragazzo di 28 anni già stempiato, si chiama Conrad: «Mio nonno è un uomo molto anziano e malato. Ha sempre sostenuto di non aver partecipato al massacro. Ogni volta che pensa a quel periodo, cade in un incubo. Non voleva arruolarsi». Anche su questo punto, per la verità, la procura militare italiana eccepisce. Secondo i documenti ufficiali, Karl Gropler si arruola nella gioventù hitleriana nel 1937, quando la leva era ancora su base volontaria. Nel 1942 entra nelle SS. Diventa un membro delle famigerate «Totenkopf». Responsabile della disciplina e della sicurezza nei campi di concentramento. Va sul fronte russo, a Karkow. Dove si ricorda una delle stragi naziste più sanguinose. È ancora sul fronte in Polonia, Ungheria, Prussia, Italia. La sua artiglieria è a Sant’Anna di Stazzema nell’agosto del 1944. Come risulta da diversi documenti d’epoca, oltre che dalla testimonianza di un soldato: «Gropler era capopezzo».
Il sergente torna a casa nel 1945. Non si allontana più da Wollin. Da questo paese dell’ex Germania Est, antinazista per costituzione. Il signor Gropler si mette a lavorare nella cooperativa agricola Lpg. Coltiva patate e mais. Produce mangimi per animali. Fa quattro figli. Non parla del passato. Soltanto l’ex collega Kahl Udeke, attuale vicino di casa, ha un ricordo che lo inquieta: «Una volta, tanto tempo fa, mi ha fatto vedere il tatuaggio delle SS sul braccio». Per il resto, il sergente Gropler sta al riparo dai suoi incubi. «Mai una parola su quel periodo», dice l’amico Fritz Lenz. La figlia Ingrid è impiegata all’Ufficio delle Entrate: «Io credo a mio padre. Era in Toscana, ma non ha partecipato al massacro. Se fosse stato colpevole, non sarebbe mai andato in vacanza in Italia sul lago di Garda».
Non ci sono foto di Karl Gropler. Né all’epoca delle SS, né attuali. La figlia e il nipote lo proteggono. Vogliono che resti chiuso in casa. «Abbiamo già avuto molti problemi,pagato 120 mila euro di spese processuali. Hanno fatto una manifestazione antifascista qui davanti. Due omonimi Karl Gropler, che non c’entrano, hanno avuto dei problemi». Alla fine, però, accettano di andare a parlare con il Gropler che c’entra. Aprono il portone di casa. In cortile c’è una vecchia Opel senza targa. Un gatto grasso. Attrezzi da lavoro. Ed ecco quello che l’ultimo testimone dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema ci tiene a far sapere: «Il diritto tedesco si basa sul fatto che si deve provare la colpa di ogni singola persona. Io non ho niente da temere perché non ero lì». Non una parola di più.
Nulla sul soldato che uscì dal massacro suonicchiando un’armonica a bocca. Nulla sul tedesco che giocava a tirassegno con i cadaveri. Nulla sui corpi bruciati insieme agli armadi e le raffiche di mitra a falciare i bambini. Nulla nemmeno sulle parole del soldato semplice Ignaz Lippert: «Erano orgogliosi. Euforici per quello che avevano fatto. Vere SS. Per loro non era mai abbastanza». Non c’erano partigiani nella zona, solo popolazione inerme. Il sergente Gropler non ricorda più. «Per fortuna non ho dovuto partecipare», dice. Nulla sulla signora Lina Antonucci che corse nella stalla e si salvò sepolta viva dai cadaveri. Nulla di Ennio Navari, nascosto dentro il forno del pane. Nulla per Mario Marsili che aveva sei anni, e la madre lo appese a cavalcioni in alto sulla stalla un attimo prima di essere ammazzata. «Urlavano. Sembravano drogati» disse Elio Toaff che si era rifugiato proprio su quelle montagne, molti anni prima di diventare rabbino. Lasciarono dietro di loro 560 vittime innocenti.
Sono successe molte cose in questi anni. I pochi sopravvissuti, come Ennio Mancini e Enrico Pieri, hanno testimoniato ogni giorno contro il silenzio. Gli storici Paolo Pezzino e Carlo Gentile hanno ricostruito i fatti. Il procuratore De Paolis ha ottenuto dieci ergastoli. La procura di Stoccarda, invece, ha archiviato. Eppure gruppi di cittadini tedeschi sono venuti a Sant’Anna a piangere. E il 22 marzo scorso anche i presidenti Gauck e Napolitano sono rimasti in silenzio vicini, mano nella mano, davanti alla lapide in memoria dei martiri. Ma i protagonisti di quella mattina di orrore continuano un’inesorabile opera di rimozione. Eccolo, il sergente Gropler, dietro al portone giallo: «Io non volevo andare. Prendetevela con lo Stato tedesco, piuttosto. Non con me».