Pietro Del Re, l’Espresso 26/4/2013, 26 aprile 2013
LE TENDE DI ALEPPO
Se a Kasen hai bisogno di un elettricista, un meccanico, un muratore, un becchino o un mugnaio devi rivolgerti a Fahed Khalil, un omino dal viso piccolo e patito che, prima della rivoluzione, era maestro di scuola. In questo villaggio contadino della Free Syria, la Siria conquistata dai ribelli, negli ultimi due anni più della metà della popolazione è fuggita per paura delle bombe sganciate dai caccia del regime. «Molti uomini sono morti, altri stanno combattendo a Idlib o Aleppo contro le truppe regolari. Perciò devo pensare a tutto io», si lamenta Fahed nella sua officina-deposito, dove i sacchi di farina sono ammucchiati accanto a quelli di cemento, e dove da una bara scoperchiata spuntano gli attrezzi per riparare le automobili.
Uomo tuttofare suo malgrado, da qualche settimana Fahed comincia ad abituarsi a questa economia di guerra. È dai primi di marzo che nel suo villaggio, così come in buona parte della Siria "liberata", stanno arrivando quei beni di prima necessità che scarseggiavano. «Fino al mese scorso non c’era un grammo di farina, e di acqua avevamo solo quella piovana. Mancava tutto: elettricità, carbone, farmaci, benzina. Poi, con l’arrivo della primavera, abbiamo ricominciato a vivere. E possiamo pensare al domani che costruiremo per i nostri figli».
Più che la primavera, a Kasen possono i soldi giunti dall’Occidente e dai Paesi del Golfo. Qui come altrove si organizzano consigli comunali spontanei che provvedono a erogare servizi sociali, dispensano cibo, raccolgono rifiuti. È stato perfino creato un corpo di polizia, con nuove divise disegnate da una studentessa di Homs. «Credo che senza questa svolta, noi sopravvissuti alle bombe e all’estrema miseria, avremmo senz’altro organizzato una rivoluzione contro gli insorti», dice ancora Fahed. Perfino l’incubo di un bombardamento aereo o di uno Scud sparato magari da una base vicina a Damasco, sembra farsi più remoto. Per questa parte del Paese, Moaz al Khatib, leader dimissionario della Coalizione nazionale siriana, principale cartello delle forze d’opposizione, ha più volte chiesto la protezione dei missili anti-missile Patriot schierati lungo il confine turco, che però il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, continua a negargli.
Sebbene si continui a guerreggiare aspramente e tra gli insorti stia crescendo il numero degli affiliati al qaedismo, quando attraversi questi territori hai l’impressione di assistere alla nascita di una nazione. L’esperimento in atto in questa porzione di Siria che dalla Turchia si estende per circa 70 chilometri verso l’interno potrebbe prefigurare il futuro del Paese, anche se ad Aleppo e Idlib si raccolgono quotidianamente decine di morti e feriti, e ogni giorno il computo delle vittime non fa che appesantire una cifra già spaventosa di per sé: 90 mila morti, secondo la stima più recente. Ad Aleppo, città martire, gli insorti conquistano pochi metri di terreno al giorno, per doverli riabbandonare l’indomani, dopo una controffensiva delle forze regolari. Per il regime di Assad, perdere la seconda città del Paese significherebbe perdere la guerra. Qui, è strategico ogni incrocio di strade, ogni cumulo di macerie.
Quando con Fahed arriviamo al forno di Kasen, c’è già una ventina di ragazzi in coda per il pane. «Possiamo distribuirne quotidianamente due razioni per persona. Siamo anche riusciti ad abbreviare i tempi di attesa, per scongiurare il rischio di essere centrati da un razzo». Gli aerei e gli elicotteri da guerra del presidente Bashar al Assad continuano ad accanirsi contro le file davanti ai fornai: dall’inizio dell’anno, ne hanno colpite 60, uccidendo centinaia di persone. «In queste condizioni, se sono i gruppi di jihadisti, quelli demonizzati dall’Occidente, a fornirci farina meno cara di quanto la troviamo sul mercato nero, noi l’accettiamo e li ringraziamo anche. C’è chi dice che i salafiti e i predicatori di Al Qaeda ci stiano comprando. Per il momento, ci consentono solo di sopravvivere più degnamente. E il giorno in cui vorranno fare della Siria uno Stato islamico, i siriani si opporranno con la stessa determinazione con cui oggi combattono contro quel macellaio di Bashar al Assad».
Per raggiungere Kan Alasal, dove ci hanno segnalato la presenza di feriti da armi chimiche, attraversiamo Babir, Talrifaat, Kanfoz, Kakarnaja, Kefar Nasen, Maskan, percorrendo strade di campagna a semicerchio attorno ad Aleppo. I centri urbani più popolosi sono i più bersagliati dai caccia del regime. A Kefar Hamra le bombe hanno arato l’arteria principale e distrutto interi quartieri, compreso l’ospedale e un vasto centro commerciale. Nelle campagne, un oceano di spighe verde smeraldo ricopre ogni cosa, perfino le voragini dei razzi che hanno mancato il loro obiettivo. Le case sono basse, di pietra non intonacata e circondate da ulivi, mandorli, fichi. Se i campi sono costellati da piccole fattorie sventrate, un po’ ovunque sorgono cantieri: s’è già ripreso a ricostruire. A ogni angolo di strada s’improvvisano benzinai di fortuna, che consistono in un barile di benzina e uno di gasolio di contrabbando, una tanica e un imbuto. In ogni villaggio vediamo frotte di bambini, a tutte le ore del giorno. «Lo so, dovrebbero essere a scuola. Ma le loro aule sono state distrutte, oppure vengono usate come ospedali di fortuna o come obitori».
Nei villaggi ognuno ha il suo piccolo commercio. La poca merce, siano ortaggi, sigarette o biscotti, la trovi esposta su una bancarella o su una cassetta di legno. Appesi davanti alle macellerie, sanguinano montoni appena scuoiati. E fioriscono meccanici, auto officine, gommisti, perché nessuno ha i mezzi per acquistare una nuova macchina né un nuovo trattore. Ovviamente anche qui ci sono i ladri o i profittatori di guerra, i quali mascherati da liberatori sequestrano tutto ciò che trovano, dalla farina al cotone. Ogni giorno, dal valico turco di Kyllis, entrano decine di camion carichi. «Ma sono ancora troppo pochi», dice Fahed.
E proprio questa campagna fertilissima, di una terra grassa e ubertosa, uno dei motivi che spiegano l’accanimento del regime di Damasco a voler riconquistare una regione che per millenni è stato il granaio della Siria. La cittadina di Azaz, a ridosso dal confine turco, è in attesa dell’arrivo del neo eletto premier del governo in esilio, Ghassan Hitto, il quale è però tuttora rifugiato all’estero. La Coalizione nazionale siriana l’ha scelto per governare la Free Syria, e per sostituirsi ai militari disertori e alle brigate di jihadisti che occupano il vuoto istituzionale lasciato dal ritiro del governo centrale. Il governo Hitto sarebbe il primo tentativo di una riforma politica. «Temo però che gli islamisti più radicali non vogliano neanche sentirne parlare del premier del governo "ombra". La componente armata della rivolta s’è guadagnata legittimità per governare, dopo esser riuscita a scaldare e a sfamare la popolazione».
Qui convivono ancora pacificamente le due principali correnti degli insorti, quella "secolare" e quella islamista. Oggi lottano fianco a fianco, sia pure con obiettivi diversi. Ma quando espugnano una caserma delle forze regolari, ognuno cerca di entrare per primo in modo da accaparrarsi le armi sottraendole agli altri. I tempi per affrontarsi sul terreno verranno nel dopo-Assad, quando gli uni cercheranno di costruire una Siria democratica e multiconfessionale, gli altri un califfato islamico.
Come racconta Fahed, dallo scorso autunno, da quando cioè i ribelli hanno minato le strade, non c’è minaccia di attacchi via terra da parte delle forze di regime. Per questo lungo la strada incontriamo meno checkpoint che in passato. Salvo, ovviamente, in prossimità della linee del fronte, che sono mobili, permeabili e pericolosissime perché l’esercito regolare dispone di un artiglieria infinitamente più potente di quella dell’esercito libero siriano.
Quando finalmente arriviamo a Kan Alasal, città a pochi chilometri a nord di Aleppo e a poche centinaia di metri dalle linee nemiche, un giovane ribelle ci sconsiglia di proseguire verso l’ospedale dove sarebbero ricoverati i feriti da armi chimiche. «State entrando in un’area a rischio: potete solo spingervi fino al nostro ultimo avamposto», spiega Fahed. Anche qui, a qualche isolato da dove la vita sembra aver ripreso le sembianze di una banale normalità, rischi di ritrovarti nel mezzo di una battaglia, sotto il fuoco dei cecchini, o peggio, sotto una pioggia di colpi di mortaio. Accade spesso anche ad Aleppo, quando meno te l’aspetti. Così, nell’agosto scorso, è stata uccisa la reporter giapponese Mika Yamamoto, colpita dalle pallottole dell’esercito regolare in un quartiere dove c’erano bambini che giocavano per strada e donne che rientravano nelle loro case con la sporta della spesa.