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 2013  aprile 25 Giovedì calendario

UNA RINCORSA LUNGA 15 ANNI

La politica è la bestia che tutti sanno. Enrico Letta ci va a sbattere - come tanti della sua età - la mattina del rapimento di Aldo Moro (16 marzo 1978): «Ce lo dissero in classe, poco dopo le nove.

Uscimmo da scuola in silenzio, anche se forse non avevamo colto fino in fondo la portata dell’evento». Il babbo lo condusse in pellegrinaggio a via Fani, il luogo dell’agguato e dello sterminio della scorta: «Moro era ancora prigioniero. Fu allora, avevo dodici anni, che in me nacque il primo forte sentimento politico». Un sentimento, appunto: «Qualcosa di mio». Perché, sulla sua pelle, Letta non ha mai sentito il marchio di un’appartenenza generazionale: «Penso sia giusto partire da sé, fare qualche cosa per sé, eppoi vedere quanto e come ognuno di noi ha caratterizzato un’epoca». Ancora: «Il Sessantotto fu esattamente l’opposto». E cioè, quelli che lo vissero «partono dalla propria generazione, da quello che ha fatto, da quello in cui ha creduto, da quello per cui ha combattuto, e soltanto di conseguenza parlano di sé», racconta in una intervista al Foglio del 1999.

Adesso il problema, scriveva ieri su twitter il professore bocconiano Carlo Alberto Carnevale Maffè, è che «ci toccherà giocare a calcetto con le guardie del corpo di Letta». E infatti il giovanile più che giovane Letta (farà 47 anni il 20 agosto) è rimasto incastrato in sé stesso: quattordici anni fa osservava che «i cinquantenni di oggi non sono i cinquantenni di ieri. Oggi sono ragazzoni, si sentono sempre sull’onda, giocano a calcetto ogni sabato mattina». Allora vantava il titolo preso a Giulio Andreotti, e poi conquistato da Giorgia Meloni nel 2008, di più giovane ministro della storia della Repubblica. Oggi che ha tre figli gli capita di mettere le mani in tasca e di tirare fuori le automobiline del più piccolo, Francesco; e siccome la precocità è una prerogativa che si perde col tempo - come diceva il sommo Piero Buscaroli - arriva a Palazzo Chigi con un po’ di ritardo sul previsto (Giovanni Goria ci arrivò a 44 anni nel 1987, Amintore Fanfani nel 1954 aveva giusto qualche mese meno di Letta). Nel frattempo è rimasto un po’ prigioniero di un’immagine pop autentica ma banalizzante, oltre che della parentela con zio Gianni. Però, naturalmente, bisogna partire da lì.

Vincenzo Letta, gentiluomo di Avezzano e autorevole avvocato, mise al mondo otto figli a nessuno dei quali lasciò lo studio perché, per suo strazio, disinteressati alla carriera forense. Gianni andò a farsi le ossa in uno zuccherificio guadagnandosi il soprannome di «Zolletta» (che però secondo altre versioni dipende dal carattere mieloso), prima di darsi al giornalismo di cui scalò rapidamente le cime sino a diventare prima direttore amministrativo e poi direttore responsabile del Tempo, a 36 e 38 anni: riuscire presto dev’essere un affare di sangue. Gianni è importante ma soprattutto noto, e infatti a 47 anni interpretò sé stesso in Io so che tu sai che io so con Alberto Sordi e Monica Vitti: una medaglia. Maria Teresa, figlia di Vincenzo e sorella di Gianni, è vicepresidente della Croce Rossa. Della prestigiosa nidiata fanno parte anche Cesare (archeologo e docente di Storia romana all’Università di Pisa) e Giorgio, professore di matematica con specializzazione in Calcolo delle probabilità, andato in pensione nel 2011. Giorgio gira per qualche anno poi, come Cesare, è a Pisa dove nasce suo figlio Enrico. Tutto questo sterminato e legatissimo clan si riunisce ancora, ad Avezzano o a Pisa, nelle ricorrenze familiari ed Enrico ricorda di quando bambino guardava Carosello col figlio di Gianni, e si scommetteva su quale sarebbe stata la prima réclame. Le estati si trascorrevano al mare, a Tirrenia, dove per assonanza il piccino era conosciuto col soprannome di «Nico-Letta».

Lui a sedici anni si iscrive alla Dc e al liceo classico Galileo Galilei vince regolarmente le elezioni contro la potente Federazione dei giovani comunisti insieme con Guglielmo Vezzosi (oggi caposervizio alla Nazione ) nella lista di Alternativa democratica. Sono gli Anni Ottanta, quelli del riflusso, nel quale i ragazzi non hanno vergogna di ritrovarsi, oltre che sulla politica, su quella esperienza comune e aggregante che è la tv. I pomeriggi e le sere trascorse a guardare Furia , Zorro oHappy Days si sono tradotti in un’iconografia quasi ostentata dei seminari di VeDrò, l’associazione bipartisan che Letta guida insieme con Angelino Alfano. I raduni tardo-estivi di Drò si giocano fra lezioni di economia, politologia, sfide a ping pong e all’amatissimo subbuteo, dei cui tornei il ragazzino Letta (milanista) era l’organizzatore principe nella provincia pisana. E sulla pareti i drappi sono i poster di Blade Runne r, il film culto di Ridley Scott, e di Phil Collins: «Il suo disco Face Value l’ho consumato a furia di sentirlo». Quando parla della sua libreria - oltre che di saggi economici e giuridici - cita Dino Buzzati e Luigi Pirandello, ma anche Marcello Fois e Gianrico Carofiglio.

E però il compiacimento giovanilistico - maniche arrotolate giocando a calcio balilla - ha finito col consegnare una nota caricaturale a uno che ha fatto le scuole dell’obbligo a Strasburgo (dove il babbo insegnava), si è laureato in diritto internazionale a Pisa, è cresciuto nell’ammirazione del grande europeista Jacques Delors, e che a ventiquattro anni è presidente dell’organizzazione giovanile del Partito popolare europeo. Beniamino Andreatta è incantato dal giovanotto e se lo porta al ministero degli Esteri. È il 1993. Cinque anni dopo - premier Massimo D’Alema - Letta diventa ministro delle Politiche comunitarie (il giorno del giuramento è colto di sorpresa e non ha gli abiti da cerimonia) e, dalla fine del ’99, dell’Industria. Sembrerebbe una carriera irresistibile. Ma da lì in poi Letta dimostra un carattere fin troppo conciliante, una tempra da mediatore così poco adeguata ai fuochi dei tempi. Un doroteo, secondo l’eredità semantica della Prima repubblica. Anche la scalata al Pd - tentata nelle primarie vinte da Walter Veltroni - sembrò svagata e velleitaria. Che frequenti l’innominabile perché mitologico Gruppo Bilderberg, o che sia segretario generale dell’Arel (agenzia di ricerche legislative fondata da Andreatta), o che sia membro dell’Aspen passa in secondo piano. Per un certo periodo, di lui prevale la tesi pop (giustissima ma poco fashion) che le sgroppate di Bruno Conti e i gol di Paolo Rossi al Mundial dell’82 siano il collante dei ragazzi usciti dagli Anni Settanta per metterseli alle spalle. Prevale la mitologia di Zagor , di Fantozzi , di Banana Republic. Prevale l’immagine dell’inguaribile giovanotto sempre di ritorno a Pisa dove ha residenza nel comune di San Giuliano - per votare o partecipare alla festa dell’Unità, a patto che ci siano i frati, le paste fritte con zucchero a velo di cui va matto.

Sembra un eterno secondo. Lo si ritrae in forma divertita nei periodici passaggi di consegne fra lui e zio Gianni, che cedette l’incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio a Enrico nel 2006, quando si passò dal terzo governo Berlusconi al secondo governo Prodi, e da Enrico se la riprese nel 2008, quando il centrodestra si era ripreso Palazzo Chigi. Dal 1999 al 2012: tredici anni consecutivi con un Letta all’esecutivo. Si descrive la coppia come due gemelli (altro che zio o nipote) la cui qualità essenziale è di non farsi nemici, di non litigare dentro il proprio partito, di non guerreggiare al di fuori. Richelieu uno e Mazzarino l’altro, per paragoni impegnativi ma espliciti. Un pomeriggio d’estate, mentre passeggiava sul litorale romagnolo, Letta jr venne fermato da due attempati coniugi che lo coprirono di elogi. E quando il comprensibile orgoglio era sufficientemente stuzzicato, la coppia concluse: «La seguiamo da quando dirigeva il Tempo ...». L’unica differenza tra uno e l’altro è che Letta senior ha fatto della riservatezza la sua cifra e la sua fortuna mentre Letta junior è uomo di mondo è parla volentieri ai giornalisti.

Ecco perché oggi Enrico Letta diventa (se ci riesce) presidente del Consiglio. Perché ha naturali agganci nel centrodestra. Perché è dialogante. Perché è bipartisan. Perché non ha nemici. Perché ha solide frequentazioni europee. Perché sa di economia. Perché ha cultura. Perché non è giacobino, e fra i berlusconiani è un requisito apprezzabile: disse che davanti a Nelson Mandela si sarebbe sempre inchinato. Ma anche davanti a Helmut Kohl, il «grandissimo Kohl», il grandissimo unificatore della Germania. «Grandissimo nonostante i fondi neri», specificò crocianamente. Oggi è il giorno nel quale la promessa di tre lustri deve finalmente essere mantenuta.