Marco Damilano, l’Espresso 26/4/2013, 26 aprile 2013
LASCIATE CHE I GIOVANI
Il governo Letta (Enrico) si sblocca alle nove e mezzo di sera di martedì 23 aprile sulla terrazza dell’hotel Bernini in piazza Barberini. C’è ancora Giuliano Amato in pole position per l’incarico di Giorgio Napolitano, quando all’ultimo piano dell’albergo Matteo Renzi parla concitato al cellulare. Dall’altra parte c’è il vice-segretario del Pd: «Enrico, si chiude su di te», dice il sindaco di Firenze, alla fine di una giornata che lo ha visto per molte ore virtualmente già a Palazzo Chigi. Il via libera di Renzi è per Letta il passaggio decisivo che mancava per ottenere l’investitura del Quirinale ed è anche il tentativo di scrivere un patto generazionale. Uno schema che prevede alla guida del partito Renzi, il giovane per eccellenza della politica italiana, e alla guida del governo l’attuale vice-segretario del Pd, 47 anni il 20 agosto, il più giovane dei vecchi, il più vecchio dei giovani. Una prova di tregua, al termine delle giornate più drammatiche del centro-sinistra, quando il cupio dissolvi del Pd ha rischiato di trasformarsi in una crisi istituzionale, l’impossibilità per il Parlamento di eleggere un capo dello Stato. Solo la disponibilità di Napolitano a un secondo mandato, evento da stato di eccezione, come ha riconosciuto lo stesso neo-ri-presidente, ha evitato il disastro. Ma in mezzo alle macerie del più grande partito della sinistra. Ci sono voluti più di dieci anni per costruire il Pd, dalla vittoria alle elezioni dell’Ulivo di Romano Prodi nel 1996 alla fondazione del partito con Walter Veltroni primo segretario nel 2007, sono bastati sette giorni per distruggerlo: una settimana di follia in cui sulle partite-chiave in cui si fondano gli assetti di potere dei prossimi anni, la presidenza della Repubblica e la guida del governo, il Pd ha divorato leader e padri fondatori, uno dopo l’altro.
«Una storia finita. Abbiamo vissuto l’ultimo atto di una guerra che dura da vent’anni, combattuta con cinismo dal gruppo dirigente che ha fondato il Pd e ora vuole scioglierlo». Sono le 22.30 di venerdì 19 aprile, il segretario del partito Pier Luigi Bersani si è appena dimesso, i parlamentari escono a capo chino dalla sala del Capranica, il teatro dei Veleni dove le candidature per il Quirinale di Franco Marini e di Prodi sono state prima applaudite e poi affondate, il leader dei giovani turchi Matteo Orfini, per anni braccio destro di Massimo D’Alema, attacca i capi storici. Uno psicodramma che è resa dei conti antica e scontro inedito. Una nuova contrapposizione che non coinvolge più le correnti del passato, gli ex Ds e gli ex popolari, i dalemiani e i veltroniani. La linea di rottura che attraverserà il partito nelle prossime settimane è un’altra: politica, umana, generazionale. Figli contro padri (e nonni), incomunicabilità assoluta. Minacce di espulsione, scissione strisciante, occupazioni di circoli in tutta Italia, la promessa di una vita travagliatissima per il nuovo governo. Quello delle larghe intese da fare con il nemico di sempre, Silvio Berlusconi.
A Prato si è dimessa l’intera segreteria. A Palermo la federazione del partito è occupata da giorni, come le aule universitarie nel ’68 e nel ’77. A Padova hanno esposto uno striscione: "Il cambiamento non si fa con Berlusconi. Non moriremo di tattica!". A Roma, dove tra un mese si vota per il Campidoglio con il candidato Ignazio Marino contestatissimo da un pezzo di partito, è saltato tutto il gruppo dirigente e i segretari di sezione si sono autoconvocati in assemblea, «riprendiamoci in mano il partito, questi ci hanno lasciato solo macerie», spiegano i promotori. A Torino i ribelli evocano addirittura il giuramento della Pallacorda che diede il via alla Rivoluzione francese: «Siamo il Terzo Stato del Pd, gli esclusi dal potere», spiega Francesco Daniele, uno dei ribelli. Come se di ghigliottine e di teste tagliate se ne sentisse la mancanza, nel Pd.
Una rivolta che si muove nelle federazioni occupate e sui social network. Contro il quartier generale romano che in quelle stesse ore stava preparando il Termidoro: la restaurazione, impersonata da Giuliano Amato, dall’accordo con Berlusconi e dalla vecchia nomenclatura che ha spinto per il governissimo e si è (auto) candidata a ruoli ministeriali. Come Anna Finocchiaro, una delle vittime illustri della mattanza di nomi nella partita sul Quirinale, che nella direzione del Pd ha evocato «un governo politico con le nostre eccellenze. Mettiamoci la faccia». La scelta di Letta serve a dare un segnale di rinnovamento, ma anche a rafforzare il carattere politico del governo. Ma non basta a evitare le divisioni.
È sul governo con Berlusconi che avviene lo strappo generazionale, dopo la devastazione della scorsa settimana. Sul Quirinale i parlamentari trentenni-quarantenni esordienti hanno giocato la partita da protagonisti, soprattutto quando alla luce del sole hanno affossato la candidatura dell’ottantenne Franco Marini. I big non l’hanno presa bene. «Andrebbero curati, rieducati», ha reagito l’anziano leader. Eppure erano loro il fiore all’occhiello della segreteria Bersani: «Abbiamo completamente rinnovato le liste, il 40 per cento saranno donne», si vantava il segretario in campagna elettorale. L’età media dei deputati abbassata sotto i 45 anni. E tutti o quasi i big del partito, i D’Alema e i Veltroni, fuori dal Parlamento. Sembrava un doppio vantaggio per il leader di Bettola: una bella operazione immagine e un gruppo parlamentare docile, interamente bersanizzato. E invece. «Invece ci siamo sbagliati: questi scambiano il Pd per uno spazio in cui ognuno dice quel che vuole. Non siamo un partito, siamo un autobus, un ascensore, un nido del cuculo», si lamenta ora l’ex segretario che sognava il partito pesante ed esaltava la solidità della Ditta, ferito a morte, pugnalato perfino da una sua fedelissima, la deputata di Vicenza e volto tv Alessandra Moretti che si è rifiutata di votare per Marini. Insieme ai giovani virgulti del Pd, gli ex Bersani-boys. «Non ho votato Marini», ha annunciato via Twitter Enzo Lattuca, 25 anni, segretario del Pd di Cesena, il deputato più giovane, considerato fino a una settimana fa un ultra-ortodosso. Aveva compiuto da poco quattro anni quando Amato divenne presidente del Consiglio per la prima volta indicato da Bettino Craxi, nel 1992. E sei anni quando Berlusconi organizzò il suo primo ingresso in politica e rattristò la gioiosa macchina da guerra.
Una Berlusconi-generation, tutta cresciuta nell’era del Cavaliere, ma anche negli anni dell’Ulivo di Prodi e del Pd, il partito mai nato. Chiamata rapidamente a diventare adulta, perché il terreno è devastato, le appartenenze tradizionali sono saltate, i generali sono in rotta, i ragazzi spediti al fronte si ritrovano all’improvviso da soli. Divisi tra la fedeltà a una linea di partito che non esiste più e la voglia di diventare protagonisti.
«Tra noi e i dirigenti della vecchia generazione c’è una distanza enorme: per comportamenti, costumi, stili di vita», dice il deputato forlivese Marco Di Maio, trent’anni ancora da compiere. «Io ho la mia casella mail invasa da giorni dalle proteste, non faccio neppure in tempo ad archiviare i messaggi», ammette il lombardo Pippo Civati, uno dei leader dei rivoltosi. Sul Quirinale ha votato contro Marini e per Stefano Rodotà, ha tifato per Prodi, ha messo la scheda bianca sulla rielezione di Giorgio Napolitano, si è astenuto in direzione sull’operazione grandi intese, con Orfini (e Rosy Bindi). E ora annuncia un Vietnam parlamentare per il governissimo Pd-Pdl: «I dirigenti si aspettano da noi colpi di testa, Dario Franceschini e il capogruppo Roberto Speranza da giorni ripetono che chi non vota la fiducia sarà messo alla porta. Richiamano all’ordine noi, ma sono loro che dovrebbero spiegare perché hanno parlato per due mesi di un governo del cambiamento e ora fanno l’alleanza con Berlusconi, come se questa fosse da sempre stata la posizione del partito. Forse lo era, ma non ce l’hanno detto». La sera prima della direzione Pd Civati era in una sezione del centro storico per incontrare Fabrizio Barca, ministro del governo Monti indicato tra i potenziali scissionisti in direzione di Nichi Vendola. Ma per ora si resta dentro il Pd, «la battaglia sarà al congresso», promette Civati. «È lì che dobbiamo prenderci il partito e preparare la candidatura a premier di Matteo».
Nel nome di Renzi poteva svolgersi una guerra-lampo, simile al comitato centrale del Midas del 1976 in cui i quarantenni del Psi guidati da Craxi conquistarono il potere eliminando i dinosauri. Il Midas del Pd contava per riuscire sull’inedita alleanza tra i renziani, i giovani turchi post-Pci guidati da Orfini, il primo a fare il nome del sindaco per Palazzo Chigi, disposto a mettere da parte mesi di feroci contrapposizioni («Ma non sul piano personale: tra noi c’è una certa simpatia, qualche tratto in comune...») e i cani sciolti trentenni-quarantenni tentati dall’astensione sul voto di fiducia. Operazione fallita: pollice verso di Berlusconi, spaventato dall’idea di ritrovarsi alla guida del governo un politico dinamico e in testa ai sondaggi di popolarità. «Ma anche nel Pd », racconta Orfini. «Nella sala della direzione saliva il brusio quando parlava uno di noi, è lo specchio della paura: quelli che non hanno parlato speravano di fare i ministri e i sottosegretari. Questo partito non è più in grado di fare nulla, è come il Pasok greco, non siamo stati neppure in grado di fare un nome a Napolitano per il governo. E ora l’emergenza è salvare il Pd: il partito ha perso ogni senso di unità, la base è inferocita e ancora di più lo sarà quando vedrà il governo, non c’è più nessun principio d’ordine». Ed è anche difficile immaginare in questa situazione che Renzi diventi segretario. «Faticheremo a trovarlo», sospira Orfini. «Il prossimo segretario si troverà in un pasticcio: o dovrà sostenere un governo con Berlusconi contro i militanti e anche contro tanti parlamentari, uno sforzo mostruoso, oppure dovrà far cadere subito il governo presieduto da uno dei nostri». Un bel dilemma, in effetti. Ma anche un bel problema per Enrico Letta il giovane-vecchio, il cattolico-laico, chiamato a Palazzo Chigi, a presidiare una frontiera sempre più fragile.