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 2013  aprile 25 Giovedì calendario

ECHI DEL RINASCIMENTO TRA BRONZI E GIN TONIC

«La primavera del Rinascimento» si intitola questa così bella e facile mostra fiorentina in Palazzo Strozzi. Con Donatello, praticamente protagonista, accanto al Brunelleschi. Ma «L’invenzione del Rinascimento», con Pietro Bembo, si trova a Padova, dove gli «squarcioneschi» in una celebrata pagina di Roberto Longhi erano «resi come folli dal boato delle fonderie dove ribolliva l’altare di Donatello per il Santo». E «vengono a nutrire un amore forsennato per la magia del materiale scultorio». Cioè, quella tecnica pittorica che per Mantegna e Tura e Crivelli si rifà ad aspetti ed effetti bronzei o marmorei.
Come siamo lontani da quella Milano cinquecentesca dove analoghi boati e fetori tormentavano gli abitanti nei pressi delle fonderie di Leone e Pompeo Leoni, che lavoravano full time per l’Escuriale di Filippo II, in quel palazzo degli Omenoni poi sede esclusiva del Clubino. Agli inizi del Quattrocento, gli artisti fiorentini venivano da Settignano o Maiano o Panicale o Fiesole, però (di Banco o di Duccio) si fondavano parecchio sul gusto per i marmi antichi nelle collezioni poi medicee.
Si impara en passant che il famoso giglio fiorentino fu accordato nel 1464 da Luigi XI di Francia a Piero il Gottoso de’ Medici. Si ammirano le solenni e sontuose processioni degli Umiliati, Battuti, Scarsi, Scalzi. E le tantissime Madonne col Bambino in terracotta dipinta e dorata che pare legno o stucco. Sfarzosi contenitori di sacre reliquie. Le diverse teste bronzee di cavalli, chiamate espertamente «protomi», sia antiche o antichissime e sia quella colossale del Donatello «padovano», donata da Lorenzo de’ Medici a un potente Carafa dignitario aragonese: un regalo davvero spropositato, anche solo considerando il peso del metallo.
A monte, precedenti insigni quali Giotto, Masolino, Masaccio. E scultori come Arnolfo di Cambio, Tino di Camaino, i Pisano e le loro botteghe. Proprio all’alba, nel 1401, i mirabili rilievi del Brunelleschi e del Ghiberti col Sacrificio di Isacco per una porta bronzea del Battistero fiorentino. Lignei, invece, i modelli brunelleschiani e del Sangallo per la Cupola o per questo medesimo Palazzo Strozzi. E nei bassorilievi marmorei, la squisita tecnica dello «stiacciato».
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Quanti cari antichi ricordi, a causa dei tanti classici moderni che continuano a riapparire. Con La Locanda degli Annegati di Georges Simenon (Adelphi), al di là delle facili assonanze con gli Angariati o i Battuti, insieme a qualche Addolorata o Annunziata, riecco la memoria dell’autore medesimo, sempre in coppia con Henry Miller come Gianni e Pinotto dal barbiere, ai tempi della Dolce vita, al Festival di Cannes, con calze rosa o arancione… E sullo sfondo, Fellini e Rossellini, di due Mastroianni, Chagall, Tzara, Thorez, Leiris, la vedova Léger…
«Mi piace molto la televisione, — diceva. — Ingrandisce talmente tutto, che ammazza subito i falsi valori, e mette in luce solo ciò che è vero. Tutti, attori, politici, scrittori, si spogliano immediatamente di tutto il finto e il voluto, e appaiono nel loro aspetto più autentico. Anche più crudelmente di quanto si aspettino».
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E Kingsley Amis (Lucky Jim, ora presso Dalai editore), nel pub sotto casa, a Londra. «Angry young men addirittura furibondi in una mediocre società divisa più che mai in caste, ove chi è privo di fonetica "giusta" si trova chiuso l’accesso ai posti al "top". Ma la frustrazione giovanile piccolo-borghese di massa non esercita influssi nella formazione di nuove correnti politiche. E invece trova forma ed espressione in opere teatrali e letterarie di testimonianza, costume, e gran successo: spie di prim’ordine per spiegare gli insuccessi dei gruppi giovanili più irrequieti. Attorno al vuoto lasciato dai marxismi del Trenta nella vita culturale britannica».
«Mio padre è impiegato, sono cresciuto in una modesta casa periferica, come borsista a una grossa scuola di Londra, e sempre come borsista ho studiato in uno dei collegi meno pretenziosi di Oxford: fra insegnanti, bibliotecari, giornalisti impiegatizi, scienziati dell’industria, preti di varie confessioni, assistenti sociali… Appartamenti di due stanze con dischi di Mozart e jazz, mogli vestite sportive e pettinate con coda di cavallo, bottiglie di vino cheap, manifesti di corrida e Flamenco, testi di geologia o diritto pubblico, volumi di A. J. Ayer… Ma non più Cause romantiche e decadenti che si chiamavano Spagna o fascismo o Messico, con manzanilla, cucaracha, corrida, scialli neri su muri calcinati, tute macchiate d’olio su camion sventolanti bandierine rosse da murales di Diego Rivera…
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Addio a Berlino ha una storia complicata, perché fu composto appunto là nei primi anni Trenta, ma si rimescolò presto con Mr. Norris cambia treno che aveva gli stessi personaggi e venne pubblicato su una rivista diretta dall’insigne e cordiale John Lehmann, spesso a Roma dove stava all’Hotel Victoria e soleva chiedere al barman una «fine à l’eau». Era altresì fratello della romanziera Rosamond Lehmann e dell’attrice Beatrix, indimenticabile negli Aspern Papers di Henry James. Analogamente, si diceva, della già famosa Luisa Baccara, incontrandola sempre più povera a Venezia: «Siede su un baule di lettere dell’Imaginifico, che forse non esistono». John era però un pilastro nell’azienda editoriale di Leonard e Virginia Woolf.
Ora il romanzo «a blocchi» di Christopher Isherwood ritorna per Adelphi, ma io ne ho ancora una copia edita da Longanesi a Roma nella primavera 1944, non so come e perché. E poi, naturalmente, varie edizioni seguenti. Intanto, l’assunto basico «Sono una macchina fotografica» è stato usato da «I am a Camera» di John van Druten con Julie Harris. E in seguito, il grandioso musical Cabaret, di Ebb e Kander, con eccelso protagonista Joel Grey, subì la sventura dell’abbandono precoce di Lotte Lenya, perfetta Frau Schneider. Qui si verificarono anche imbarazzanti coincidenze con Breakfast at Tiffany’s di Truman Capote, giacché le ovvie confidenze fra lo scrittore gay e la ragazza «easy» per forza sulla scena si caricano di idilli sexy non consumati chissà perché. (Altro che le gelosie vendicative dei maschiacci contro le «ex»; o le confidenze invasive «da sorella a sorella» coi travestiti).
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«Ho cominciato uno sforzo molto serio di imparare il portoghese» e «Ieri ho ricominciato il mio romanzo», scrive Isherwood alla sua mamma nel 1936 nel Diario di Sintra, con Auden e Isherwood, uscito adesso dal fiorentino Barbès. Trent’anni dopo, a Santa Monica: «Dura un’intera giornata. Comincia in modo indeterminato, frammentario, col risveglio. Con le prime attività, si precisa il carattere del personaggio. Ma non è una giornata decisiva, è un giorno qualunque... E con la notte e col sonno, tutto si disintegra nuovamente. C’è anche la possibilità che muoia nella notte, impaurito e solo, di una trombosi alle coronarie. Come una nave silurata. Ma non si sa cosa avviene. È un romanzo tutto di possibilità, non di realtà determinate»... Stava scrivendo Un uomo solo, e ne parlava così.
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«Un topo e un’elefantessa vanno a sposarsi. Come mai? A questo punto, dobbiamo, arrossisce lei». «Una matrona suburbana, mai visto un elefante, né una proboscide, ne trova uno orrendo che le devasta l’orto. E con quella enorme coda, le strappa i cavoli! E dove se li mette!». «Ecco un batuffolo verde, di ramo in ramo. Un elefantino? Macché, uno scoiattolo con un paltoncino di loden». W. H. Auden snocciola le sue storielle sugli elefanti, pacatamente, fra un gin-and-tonic e le parole incrociate del «Times», nella taverna del Grand Hotel di Heidelberg, dove tutto è ligneo e spesso.
Con Stephen Spender, a un ristorante londinese. Deve rispondere in italiano a Giorgio Morandi, che gli sta dipingendo un quadro, ma da ritirare solo se gli piace, a opera finita. A New York, parlandogli, chi avrebbe potuto immaginare che quei soldi per la sua rivista «Encouter» venivano dalla Cia o dall’Fbi? Mah.
A Spoleto, «Where’s Luchino?» gracchiava Elsa Maxwell (Ho sposato il mondo, ed. Elliot), fra il disinteresse degli astanti, che la trovavano «out».
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A Montecitorio, prima dei telefonini, tanti anni fa. La rabbia dei professionisti con uffici avviatissimi in provincia, trovandosi «peones» senza possibilità di interventi fattivi, solo con un dito per le ennesime votazioni «con procedimento elettronico», tante volte ripetuto dalla presidente Nilde Iotti.
Alberto Arbasino