Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 25/04/2013, 25 aprile 2013
QUELLI NATI NEGLI ANNI ’60 SENZA RETI NE’ IDEOLOGIE
Non ha citato Kennedy — «la fiaccola è stata consegnata a una nuova generazione...» — ma ha detto più o meno le stesse cose, Napolitano.
Le ha dette mentre affidava l’incarico di formare il «suo» governo a un uomo di cui potrebbe essere nonno. Un uomo di «una generazione giovane, anzi, secondo i precedenti e gli standard italiani, molto giovane». L’Italia, Paese considerato gerontocratico, fa un salto in avanti inatteso, e si colloca all’avanguardia in Europa. Il premier incaricato è coetaneo dell’inglese Cameron, ha appena sei mesi in più dell’olandese Rutte, ma ha 11 anni in meno dello spagnolo Rajoy, 12 della Merkel, 16 del francese Ayrault. Soprattutto, ha 23 anni in meno di Monti, trenta di Berlusconi (ma la stessa pettinatura), 27 di Prodi. E 28 in meno di Giuliano Amato, bruciato sul filo d’arrivo con uno scatto cui non è stata estranea l’età.
Intendiamoci: l’anagrafe non è mai un merito. Ma non può neppure diventare un demerito. L’incarico a Letta è una svolta, non solo perché avvia quel ricambio della classe dirigente di cui l’Italia ha bisogno. Ma anche perché segna l’ingresso in campo di una generazione rimasta finora in panchina: i nati negli anni 60. Una generazione figlia del boom ma che associa i suoi primi ricordi «pubblici» alla crisi — l’austerity, le domeniche a piedi, gli anni di piombo —, che ha cominciato a lavorare all’inizio degli anni 90, con la grande svalutazione e i tagli legati a Maastricht, quindi con la crisi è abituata a convivere, e ha forse gli strumenti per affrontarla.
Ma il ritardo con cui i quarantenni si stanno finalmente assumendo le proprie responsabilità non è colpa dei «vecchi». È colpa loro. Perché sono la generazione più disunita che si conosca. Si sono affacciati sul mondo al tempo del riflusso, quando finiva la politica di piazza che aveva creato molti guai ma aveva forgiato gruppi uniti e coesi, al di là dei percorsi politici. Sono cresciuti nell’età della febbre del sabato sera e del campionato di calcio più bello del mondo, senza grande interesse per la politica, incapaci di solidarietà reciproca, persuasi che il successo fosse un fatto esclusivamente personale e la massima soddisfazione fosse fregare il vicino di banco, anziché tendergli la mano e salire insieme. È una generazione che fatica a dire «noi», priva di un film, un libro, un disco che la definisca. E non perché non ci siano stati bravi registi, scrittori, artisti. Ma perché il giudizio sugli anni 80, in cui la generazione Letta si è formata, è tutt’altro che condiviso.
La sinistra (comunista e democristiana) li considera anni horribiles. I paninari. Gli yuppies. I film dei Vanzina, con le top model griffate e gli attori con l’abbronzatura da lampada. Craxi al potere e il Pci in declino. Le tv commerciali del miglior amico di Bettino: Berlusconi. L’egemonia della destra: Thatcher e Reagan. Rocky e Rambo, che dopo l’inizio memorabile diventarono maschere, pronte ad abbattere il campione russo Ivan Drago e a fare strage di vietcong e altri comunisti. Adesso non lo confesseranno mai, però allora i cattolici di sinistra non amavano molto neppure papa Wojtyla, così ostile alla teologia della liberazione e tanto amico dei ciellini.
Enrico Letta però non la pensa così. Anzi, considera gli anni 80 un periodo straordinario. Per la musica: più gli U2 e i Dire Straits che gli Spandau Ballet e i Duran Duran, che «servivano soprattutto per cuccare». Per i fumetti di Dylan Dog. Per i romanzi di Kundera e Vazquez Montalban. Per i film: i suoi preferiti sono Blade Runner, Guerre stellari (che però è del ’77), Indiana Jones e in genere tutto Spielberg; e poi Benigni, Troisi, Verdone. Per il calcio: prima l’Italia di Bearzot, poi il Milan di Sacchi. Per gli oggetti: il cubo di Rubik, lo skateboard, il frisbee, il walkman, le cassette registrate dalla radio, gli swatch di cui è stato collezionista, il subbuteo di cui è tuttora accanito giocatore; e poi il vespone bianco cui tolse i «bomboloni» e, presa la patente, l’A112 e la Y10. E anche per la tv: «Drive In lo guardavo, in particolare Ezio Greggio e Giorgio Faletti. E poi Supergulp, Dan Peterson, Rino Tommasi. Su tutto, Mixer, con i faccia a faccia di Minoli».
Il vero vantaggio dei quarantenni, però, è aver avuto un’educazione rigorosa ma non ideologica. Sono gli ultimi a essersi formati in massa sul libro Cuore e su Pinocchio, ad aver tutti (o quasi) letto i classici, ad aver passato poco tempo su videogames e tv, che nella loro infanzia era ancora in bianco e nero. Senza computer e telefonini. Soprattutto, quasi senza fascismo e marxismo. E un rapporto sereno con l’America, a differenza dei fratelli maggiori che magari in gioventù avevano bruciato la bandiera stelle e strisce per poi scoprire con la maturità che l’America, se affrontata con una carta di credito attiva e preferibilmente altrui, è il Paese più straordinario del mondo. Per tentare di rompere l’individualismo e l’isolamento, Letta si è creato una «lobby», VeDrò, dal nome del paese trentino dove il suo gruppo di amici si ritrova ogni anno a fine agosto, in una centrale elettrica in disuso (anche se l’ultima edizione è finita sui giornali soprattutto per il presunto fidanzamento tra la blogger Selvaggia Lucarelli e Giuseppe Cruciani, il Rush Limbaugh italiano, classe 1966 come Letta).
Il premier incaricato spunta proprio quando i quarantenni sembravano già scavalcati dalla generazione successiva, più a suo agio con l’era online, più capace di «fare rete», più disponibile a riconoscere leader o modelli di riferimento, ognuno con un suo pubblico: Roberto Saviano, Lapo Elkann, e ovviamente Matteo Renzi. Attor giovane della compagnia che sta uscendo di scena, Letta rischiava di dover cedere il passo al sindaco di Firenze. Invece gli è capitata un’occasione che paradossalmente rischia di essere l’ultima. Un altro suo coetaneo, Jovanotti, ha sorriso: «È la prima volta che ho l’età del presidente del Consiglio. Prima o poi doveva capitare». Negli anni 80 Lorenzo Cherubini esordiva con Gimme Five; da allora è cresciuto molto.
Se anche faticano a emergere, almeno i quarantenni hanno avuto spesso buoni maestri. Napolitano ieri ha citato quello di Letta, Nino Andreatta, che nell’era del monetarismo gli insegnò a coniugare rigore e sensibilità sociale. Un uomo che diceva frasi come questa: «Dalla frequentazione con Aldo Moro abbiamo imparato una visione alta e grande della politica, che richiede grande tensione morale, che non può scadere negli scambi delle consorterie, nel ritorno al privato, nel momento in cui si esercita una funzione pubblica».
Aldo Cazzullo