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 2013  aprile 26 Venerdì calendario

ALBERTAZZI SULLA PROCLEMER “DISSE: AIUTAMI A MORIRE”

«PIÙ volte mi aveva chiesto di aiutarla a morire, come aveva fatto anche Lucio Magri, suo grande amico. Aveva una malattia che la menomava, non ci vedeva bene. Preferiva morire. Me lo chiese anche cinque giorni fa. E io? Io non l’ho fatto». Giorgio Albertazzi parla commosso poche ore dopo la morte di Anna Proclemer.
Un giovane immemore della grande stagione del teatro italiano potrebbe trovare antica, incongrua una storia d’amore come quella tra Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer. Negli anni ruggenti del loro successo, dal ‘56 e per tutti gli anni Settanta, erano fuggiti insieme, si erano amati con la classe e la sregolatezza degli artisti colti, intelligenti e insieme avevano fatto la storia del teatro, Un cappello pieno di pioggia, La figlia di Jorio, Spettri, l’Amleto, Caro bugiardo...
Insieme, ancora oggi, ormai “coppia separata” da decenni, quasi novantenni uscivano, si vedevano, parlavano ancora dei loro desideri e del loro presente.
«Ma negli ultimi tempi Anna aveva cambiato voce — dice ora Albertazzi — Non stava più bene, ci vedeva poco. Mi chiedeva di aiutarla a morire, sì. Ancora pochi giorni fa non faceva che dirmi: “Giorgino, che brutto. Voglio morire, fammi morire”».
E lei?
«Non ho fatto niente. Ma non perché sia contrario all’eutanasia. Anzi, sono convinto che ognuno abbia il diritto di morire, di scegliersi la morte. No, l’ho fatto per un gesto egoista: volevo vederla viva. La morte ti sottrae qualcosa ai sensi, prima che al cuore: non vederla più per me era peggio. Ma andando avanti non so cosa sarebbe successo».
Ma perché Anna Proclemer le chiedeva di aiutarla a morire?
«Il problema è complesso. Perché devi assistere alla tua degradazione fisica? In nome di che cosa? La sua testa era vigile, attenta. Per chi ha la nostra età la morte è nei pensieri, ma questo è niente rispetto alle richieste impossibili del corpo che si degrada, alla lotta atroce con il corpo che si corrompe, si consuma... E se la tua testa è vigile, è difficile non fare scelte estreme. E Anna aveva ancora una bella testa».
Come l’ha aiutata?
«Non ho voluto fare il medico pietoso. Si meritava altro e quindi cercavo di riproporle cose da fare insieme. Per esempio quel Romeo e Giulietta a cui pensavo da tempo: un’adolescente irresponsabile solo un’attrice in età può farla. E Anna non l’aveva mai fatta Giulietta. Nel suo dna d’attrice lei era regina. E comunque non se la sentiva più di recitare, non vedeva, non sentiva più bene. Ma era ancora bella. Così, finiva che parlavamo moltissimo, di teatro, di vita, di mia moglie Pia Tolomei che lei amava, di ricordi. Anzi, lei aveva questa cosa delle persone di una certa età che ripescano il passato e lo rivivono direi quasi in senso poetico, in modo che emerge solo la gioia di aver vissuto, non la fatica di averlo fatto: la nostra fuga in Svizzera, a Lugano appena innamorati, le scavallate dell’Italia in tournée, le serate con gli scrittori... «.
Si diceva anche delle molte scintille fra voi.
«Scontri creativi. Lei si arrabbiava soprattutto perché diceva che le risposte giuste le arrivavano il giorno dopo il litigio».
Vi ha diviso la politica?
«Ma no. Lei era una donna di sinistra, laica, sentiva la propria responsabilità civica, sì, ma quanto a me sono un anarchico. La pensavamo allo stesso modo su tante cose».
E ora?
«Ora mi resta la mancanza di una donna straordinaria per bellezza e intelligenza. Nella mia vita non c’è momento che non ci sia stata una presenza femminile, mia madre, mia nonna e le compagne da cui credo di essere stato più amato di quanto abbia amato io. Anche con Anna. Ma questo dipende solo da me».