Filippo Ceccarelli, la Repubblica 25/4/2013, 25 aprile 2013
IL NIPOTE E LO ZIO LA DINASTY DEL PALAZZO
DUNQUE, i Letta. Nell’illustrare ai giornalisti il contenuto della ricca mostra su Machiavelli all’Altare della patria, ieri mattina, pochi minuti dopo l’incarico, Giuliano Amato, se lo è chiesto.
COME mai, fingeva di chiedersi il Dottor Sottile, fra i tanti e curiosi reperti esposti su Machiavelli e i videogames, per dire, o su Machiavelli e i narcos, o su Machiavelli e gli articoli da donna, mancava uno spazio dedicato «a Machiavelli e i Letta»?
«I Letta», al plurale, zio e nipote. E in quel momento così speciale, e più ancora in quel contesto così denso di segni, le risatine che echeggiavano dinanzi al ritratto del Segretario fiorentino per un attimo hanno ceduto il passo alla saga, alla leggenda, al laboratorio immaginario di utilities e retropensieri sedimentatosi nel corso di un decennio intorno a quel vincolo di sangue e di potere.
La faccenda, in effetti, trascende le normali dinastie - i Giolitti, gli Amendola, i Mussolini, i La Malfa, i La Loggia, i Mancini, i Segni, i Berlinguer, i Gava, i Martino, i Craxi, i D’Alema, adesso anche i Barca - che hanno fatto e continuano a fare la storia politica d’Italia. Nel caso di Gianni ed Enrico la partizione bipartisan, o rinforzo trasversal-nepotistico, comunque fa sì che sempre ci sia almeno un Letta a Palazzo, e talvolta anche due.
Nella primavera del 2006, quando Berlusconi dovette lasciare Palazzo Chigi a Prodi, il perenne raddoppio ebbe una sanzione addirittura rituale, nel senso che lo zio del centrodestra passò ufficialmente il ruolo e le consegne al nipote del centrosinistra. Di quella inaudita cerimonia restano delle immagini che, nella loro smisurata e insieme dissimulata sobrietà, confermano il marchio della casa e della famiglia. Riserbo, diplomazia, moderazione, simpatia e unità nella diversità.
Stefano Bartezzaghi dedicò all’evento
uno dei suoi limerick: «C’è un sottosegretario a nome Letta/ che fa trasloco con un po’ di fretta./ Lasciar deve la stanza/ al nuovo che s’avanza:/ un sottosegretario a nome Letta». Di lì a un paio d’anni, senza ulteriori creazioni poetiche, il «nuovo» restituì la medesima stanza allo stesso Letta, zio Gianni, che onorevolmente la occupò fino al novembre del 2011. Dopo di che, per quanto temporaneamente fuori dalla sede del governo, i due Letta, sempre ovviamente all’unisono, svolsero mansioni di ambasciatori del Pd e del Pdl presso il governo tecnico di Monti. E adesso, tanto per cambiare, eccoteli qui.
Disse senza malizia e in tempi non sospetti Giorgio La Malfa che occorreva puntare a un bipolarismo in cui i due Letta fossero finalmente dalla stessa parte. Ma il sospetto è che l’auspicio non tenesse in debito conto i benefici che proprio tale articolazione può procurare al sistema - purché ovviamente i dispositivi, da Cernobbio al salotto Angiolillo, non siano vistosi né sgangherati. E in questo senso vale segnalare la brillante risposta con cui Enrico chiuse la questione consegnandola agli archivi: «Sarei felice se i confini del bipolarismo fossero meno dolorosi per la mia famiglia».
Quando Berlusconi, che in certe cose ha l’occhio lungo, conobbe il giovane Letta e ne ebbe certamente voglia: «Non puoi far nulla - chiese allo zio - per avere con noi tuo nipote?». Impossibile stabilire cosa rispose il Senior. Ma certo la carriera dello Junior non conobbe intralci nemmeno nell’altro campo. A parte un piccolo incidente, allorché un politico locale, Squeri, piacentino, ex Margherita in bilico verso la Cdl, se ne uscì: «I miei punti di riferimento sono Gianni ed Enrico Letta». E quest’ultimo fu costretto a rispedire al mittente un’«acrobazia
politica» che considerava «tanto bizzarra quanto sbagliata».
Correva l’anno 2004. Sennonché se l’Italia è un paese cocciuto e sospettoso e se nessuno in buona fede può sostenere che Enrico Letta sia in realtà un berlusconiano
in partibus infidelium, si dimentica spesso che l’essere e ancor più il sentirsi democristiani presuppone una concezione assai più raffinata del potere e degli schieramenti; e al tempo stesso implicano una scuola, una visione, un tocco inconfondibile e quindi anche una rete di relazioni che nulla hanno a che fare con le grossolane usanze della Seconda Repubblica. In questo, zio e nipote sono molto, ma molto democristiani. Così democristiani da assomigliarsi nell’anima, per quanto le dovute evoluzione della specie rendano poco riconoscibile tale conformità.
«Letta continua» scherzano anonimi creativi della rete sotto ritratti di mostruose ibridazioni. Per il resto, l’unica colpa che Enrico risulta aver attribuito a Gianni è che da giovane era romanista e che al servizio di Berlusconi è passato con il Milan. Ma anche qui la contraddizione si risolve ad un più alto livello essendo il nipote anche lui milanista sfegatato e per giunta fondatore del Milan Club di Montecitorio.
Su un piano privato l’affetto ovviamente c’è. «Sono legato a zio», ha detto in varie interviste il presidente incaricato, «è un rapporto importante», «ho un’alta stima». Forse anche perché negli anni ha dimostrato di essere «la salvezza di Berlusconi» - e da questo punto di vista meriti e peccati un po’ si confondono. Per chi volesse indagare, sembra significativo che il 16 marzo del 1978 Gianni Letta, allora direttore del Tempo, caricò sulla sua Mini Morris il dodicenne Enrico Letta e insieme andarono a via Fani. Sono episodi che rimangono impressi; e magari, nella loro potenza emotiva, si intrecciano e si combinano con fenomeni certo più astratti quali la circolarità delle èlite nella formazione del ceto politico, o se si preferisce delle oligarchie.
In ogni caso «i Letta», come li ha chiamati Amato prima che gli venissero i cinque minuti, stanno entrando definitivamente nella favola del potere. Stai a vedere che si ritrovano di nuovo a Palazzo Chigi.