Giovanni Cominelli, ItaliaOggi 26/4/2013, 26 aprile 2013
BEH, CATOBLESTICAMENTE PARLANDO
Giunto alla fine della sua esperienza di governo in qualità di ministro per la coesione territoriale, Fabrizio Barca ha deciso di stilare un bilancio politico-intellettuale della sua azione di governo con un documento intitolato «Un partito nuovo per un buon governo. Memoria politica dopo 16 mesi di governo – Aprile 2013».
Con questo documento, Barca si è poi candidato a segretario di un partito che tenga insieme la sinistra interna del Pd, i «giovani turchi», che hanno abbandonato Pier Luigi Bersani alla deriva, Sel di Nichi Vendola e qualche pentito del M5S. Nel giro di dieci giorni, il documento si è trasformato da piattaforma intellettuale e programmatica in una lunga mozione congressuale, destinata ad affrontare la sfida con Matteo Renzi, sempre che il Pd arrivi unito a congresso. Ma, a maggior ragione, se i venti di scissione non soffiassero violenti e abbattessero il Pd che finora abbiamo conosciuto. In questo caso, attorno al documento-mozione di Barca si costruirebbe un nuovo soggetto politico, con un nuovo nome. Barca tenta dunque la discesa/salita nel campo minato della politica. Adesso ha annunciato la presentazione per l’8 maggio di un nuovo soggetto politico assieme a Vendola e a Antonio Ingroia.
La parola d’ordine che ha già avuto fortuna mediatica, lanciata da Barca è «No al catoblepismo»: espressione con la quale il coltissimo Raffaele Mattioli in un saggio del 1962 definiva e condannava l’intreccio perverso degli anni ’30 del Novecento tra banche e industria. Il catoblepismo, per Barca, designa l’intreccio perverso tra «partiti Stato-centrici, macchina dello Stato arcaica e élites che li governano ambedue e che si sostengono reciprocamente, producendo un equilibrio perverso di sottosviluppo». Stato e partiti sono «fratelli siamesi», che bloccano la società civile, la democrazia, la diffusione e la sintesi delle conoscenze per il governo. La macchina dello Stato è attardata su un modello autoritario di governo della cosa pubblica, estranea agli strumenti della democrazia deliberativa, detentrice monopolistica della conoscenza per governare. Arroganza cognitiva, appunto. I partiti sono diventati un pezzo dello Stato, hanno generato finanziamento pubblico, hanno colonizzato l’amministrazione, hanno esercitato patronage e clientelismo, sono diventati utilities di Stato, pertanto anche al riparo dei rischi di privatizzazione.
Come uscirne? Barca delinea una terza via tra il liberismo, che pretende di risolvere il problema della macchina pubblica riducendola al minimo, e la vecchia socialdemocrazia, che invece ha dilatato la macchina pubblica mai revisionata da nessuno dall’epoca del fascismo. L’errore comune alle due visioni è l’idea che solo pochi possano disporre della conoscenza per prendere le decisioni necessarie per il pubblico interesse. Questo errore è condiviso anche dalla tecnocrazia degli organismi internazionali, compresi quelli europei. La necessità di cambiare il modello dei pochi, tecnocratico-liberista o socialdemocratico, nasce da due fattori relativamente nuovi: la diffusione sociale delle conoscenze e l’ipertrofia dell’Io.
Detto in altre parole: il cittadino dispone di una quantità maggiore di conoscenze rispetto al passato prossimo e pretende (ecco l’ipertrofia!) di farle valere in modo individualistico. No, dunque, al governo illuminato dei pochi. Che dire? La sensazione generale che si ricava è duplice: per un verso, vengono riproposti, con lessico nuovo, adeguato ai tempi, i temi che sono stati oggetto di elaborazione e di discussione nel vecchio Pci, già dagli anni 80, quando più aspro si fece lo scontro culturale tra la tendenza socialdemocratica, guidata da Giorgio Napolitano, e quella maggioritaria di Enrico Berlinguer e successori. Per altro verso, il documento pare fermarsi sulla soglia metodologica, così da risultare reticente sulle due questioni fondamentali: come separare i partiti dallo Stato e come cambiare la macchina dello Stato?
Tuttavia, il documento tace sui punti decisivi della riforma dello Stato e perciò dei partiti. Barca non ha fino in fondo compreso che l’intreccio partiti-Stato non è affatto perverso, giacché è la logica e fatale conseguenza dell’assetto istituzionale definito nella Costituzione del ’48. I partiti hanno deciso per sé una collocazione centrale nel sistema istituzionale, attribuendosi sia il potere di proporre la rappresentanza ,sia il potere di formare il governo. La fratellanza siamese sta scritta nella «Costituzione più bella del mondo». Perché la storia della Costituzione materiale è andata in ben altra direzione. Il primato dei partiti (poi nobilitato in «primato della politica») ha comportato una presenza crescente e pervasiva dei partiti nell’amministrazione, nelle banche, nei giornali, nella Rai, nelle partecipazioni statali, nell’università, nel sistema culturale ecc... Ora, c’è un solo modo per ricondurre i partiti ad una dimensione più limitata: quella di togliere loro il potere di formare la rappresentanza e il governo. Si tratta di riconoscere agli elettori il potere di scegliere direttamente il capo di Stato e di governo (il presidenzialismo) così che si possa passare «dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei cittadini”. E di scegliere direttamente i loro rappresentanti, mediante collegio uninominale a un turno o a due turni.
Dunque: occorre passare dalla repubblica parlamentare alla repubblica presidenziale. Abolire il finanziamento pubblico o dimezzare i deputati non serve a nulla, se i partiti mantengono la centralità istituzionale, che la Costituzione ha garantito loro. Su tutto ciò, Barca tace. Così come tace sull’altra questione, quella della riforma di un’Amministrazione arcaica e autoritaria. Giacché tale riforma non è possibile, senza modificare radicalmente lo Stato amministrativo: accorpare i Comuni, abolire tutte le Province, ridurre a metà circa le Regioni. La parola federalismo non compare neppure una volta! Quale conclusione? Il documento di Fabrizio Barca resta l’espressione di una tecnocrazia colta, intelligente e stato-centrica.
Una cosa è certa: i dilemmi che si presentarono al Pci nel 1989 e che non ha sciolto negli ultimi 24 anni sono di nuovo qui davanti, irrisolti. Il documento ha il pregio di una pars destruens limpida. Quella construens per il momento non appare. Del resto, convincere la sinistra del Pd, i vendoliani e i grillini di sinistra e gli ingroiani che occorre abbandonare lo statalismo non sarà facile. Barca lo dice, ma non spiega come farlo.