Carlo Fusi, Il Messaggero 25/4/2013, 25 aprile 2013
LETTA, L’EX RAGAZZO PRODIGIO
Adesso diranno tutti che è un predestinato. Perché in effetti se a 32 anni sei già il più giovane ministro di sempre a 46 dove mai puoi ritrovarti se non a palazzo Chigi? D’accordo, diamo al destino quel che gli appartiene, e già che ci siamo anche alle necessità dinastiche del nomen omen: l’altro Letta, Gianni il Supremo Mediatore, è o non è lo zio? Poi però basta. Perché Letta Enrico, pisano, sposato e padre di tre figli, la carriera se l’è costruita con le sue mani, e il massimo di sarcasmo che puoi usargli contro è ricordargli che, anche fisiognomicamente, un secchione. E proprio come i secchioni che però non sono nerd, qualche trasgressione politically correct se la concede. Gli piace Dylan Dog e chissà se in una delle prossime riunioni del Consiglio dei ministri gli capiterà di serrare i denti e masticare uno stizzito ”Giudaballerino”. O magari, visto che adora Vasco e Zucchero, arriverà a palazzo Chigi con le cuffie e qualcuno sentirà sgusciare fuori le suadenti note di Albachiara o il rock di C’è un diavolo in me; quest’ultimo particolarmente indicato visto che Letta jr è un tifoso doc del Milan. Sì, proprio il dream team di Berlusconi.
L’AREL E ANDREATTA
Dunque il destino non c’entra. Perché anche gli incontri della vita te li costruisci tu, naturalmente se vuoi. Per Letta ce n’è uno che va segnato con la matita blu: è quello del 1990 quando, ventiquattrenne ricercatore appena laureato in Diritto internazionale all’Università di Pisa, si presentò a colloquio con Beniamino Andreatta, fondatore dell’Arel, think tank della sinistra dc. Fu una folgorazione. Gli fece girare la testa «quell’ironia socratica del maestro in grado di condizionare l’allievo» descritta da Edmondo Berselli: valeva per Prodi ma va benissimo anche per il feeling con Letta. Nove anni passati furiosamente sull’ottovolante del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica: da capo della segreteria di Beniamino (Nino per gli amici e per tutto il resto del mondo) alla Farnesina, a segretario generale del Comitato dell’euro voluto da Ciampi; dal Ppi appena nato di cui diventa d’un colpo vicesegretario, all’avvento della «destra gaglioffa» del Cavaliere, definizione anche questa doc di Andretta. Da lui, Letta ha imparato la sobrietà e il senso dell’etica in politica. Ma poi ha camminato da solo: ministro delle politiche Comunitarie nel primo governo D’Alema, poi titolare dell’Industria e infine sottosegretario a palazzo Chigi con Prodi.
LA CENTRALITA’ ESIGENTE
Enrico i lasciti politici di Andreatta ce li ha stampati nel cuore e nei circuiti celebrali. Li ha sciorinati il 14 dicembre 2011, un attimo dopo l’addio di Berlusconi e l’avvento di Monti, nella Sala della Lupa nel suo ricordo: la «centralità esigente» del Parlamento; il «dovere della visione comune» che oggi vale soprattutto in funzione europea e infine il coraggio «spinto spesso al limite della temerarietà». Lezioni che Letta non ha dimenticato e che adesso gli torneranno utili e gli faranno da bussola, ora che in prima fila c’è lui e tutti gli altri dietro. Adesso la temerarietà dovrà giocarsela nel cercare di tenere assieme l’avversario Silvio, il fuoco amico del Pd, i sorrisi perplessi di Scelta Civica e davvero non si capisce chi è più pericoloso. Sa di avere un estimatore sul Colle che gli ha spianato la strada: ha spiegato chiaro e tondo che se fallisce o lo fanno fallire, dopo di lui c’è solo il diluvio elettorale.
IL FRONTE ESTERO
Se il fronte interno è un catino di insidie, potrà trovare simpatia e comprensione fuori dai confini. Non a caso è componente del comitato europeo della Trilateral Commission gruppo fondato negli anni Settanta da David Rockfeller. Sempre non a caso fa parte del Gruppo Bildeberg e del Comitato esecutivo dell’Aspen Institute. Non proprio circoli del golf: anche perché ad Enrico oltre al calcio piace il tennis, ed è sufficientemente umile da averci giocato anche con il cronista che adesso lo racconta. Naturalmente strapazzandolo ma aveva ed ha dieci anni di meno, che diamine. Con l’Arel ha messo a punto 34 «riforme cacciavite» che devono riaggiustare l’Italia, sbloccandola. Adesso dovrà tradurle in pratica. Senza paracadute. Con temerarietà. In una partita dove vinci o perdi e il pareggio non è contemplato.