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 2013  aprile 24 Mercoledì calendario

MACCANICO, UNA VITA PER LE ISTITUZIONI DA PERTINI A PIONIERE DELLE LARGHE INTESE

SE NON se ne fosse andato proprio ieri — e se non avesse avuto 87 anni — Antonio Maccanico sarebbe stato forse il candidato perfetto, per guidare il governo che Napolitano ha disegnato a Montecitorio. Uno che era stato scelto come ministro prima da De Mita e poi da Andreotti, ma anche da Prodi e da D’Alema. Uno che era stato segretario generale del Quirinale con Pertini ma anche con Cossiga. Uno che giocava a tennis con Luciana Castellina ma costituiva anche comitati per la musica classica con Fedele Confalonieri. Uno che a trent’anni aveva la tessera del Pci ma a cinquanta godeva anche della fiducia di Almirante. Uno così, ecco, sarebbe stato probabilmente l’uomo giusto, il premier ideale, per un governo delle larghe intese.
Nessuno, neanche Giulio Andreotti che è stato il politico più camaleontico della Prima Repubblica, è mai riuscito a trovare intese più larghe di quelle che lui collezionava in silenzio una dopo l’altra, restando sempre discretamente in penombra. Nessuno ha saputo attraversare le stanze del potere con la sua felpata sicurezza, lasciandosi dietro una così lunga scia di ammirata stima. Nessuno ha saputo salire con la sua eleganza la scala del Palazzo, nel quale entrò a 23 anni come funzionario parlamentare della Costituente e arrivò nel 1996 fino al gradino di presidente del Consiglio incaricato.
“L’alchimista”, lo chiamavano. Forse perché come un sapiente chimico riusciva a mescolare gli elementi senza farli esplodere, conoscendo alla perfezione le più segrete formule della politica. Un alchimista particolarissimo, capace di custodire nella sua memoria blindata suppliche e sfuriate, confidenze e peccati, sogni e fallimenti, insomma l’altra faccia dei potenti, conservando intatta la sua carta d’identità di uomo di sinistra: prima comunista, poi repubblicano e infine ulivista.
Nato ad Avellino il 4 marzo 1924, Antonio Maccanico era un
grand commis
d’eccezione ma anche un fine politico. Un gentiluomo meridionale ma con il mito di Milano: forse perché fu proprio a Milano che — andando a trovare lo zio Adolfo Tino, primo
presidente di Mediobanca — conobbe Ugo La Malfa, che qualche anno dopo lo avrebbe fatto uscire dalle stanze del Parlamento per portarlo in quelle del governo, al ministero del Bilancio. Cominciò allora l’oscillazione di Maccanico tra il ruolo di
grand commis de l’état
e quello di consigliere del principe, un percorso a zigzag che lui ha compiuto con la disinvoltura di un pilota sul rettilineo. Tornato a
Montecitorio come direttore del Servizio Commissioni — uno dei settori-chiave della Camera, dal quale ancora oggi passano i più promettenti, dagli assistenti ai funzionari — fu promosso in poco più di dieci anni all’incarico più ambito: segretario generale di Montecitorio.
Fu nel 1978 che gli italiani cominciarono a domandarsi chi fosse quel signore con gli occhiali
spessi, i capelli grigi e il sorriso rassicurante che appariva spesso accanto a Sandro Pertini. Era Maccanico, chiamato dal presidente a fargli da braccio destro come segretario generale. Non era facile, star dietro a uno come Pertini, ma lui ci riuscì. «Avevo capito come trattarlo» rivelò poi. «Non bisognava mai parlargli di un problema senza prospettargli contemporaneamente la soluzione: questo
era il modo migliore per calmarlo ». Tra i due ci fu anche una tempesta, per la grazia a Fiora Pirri Ardizzone, perché Pertini aveva promesso che non avrebbe mai graziato un ex terrorista, e dunque diede tutta la colpa a Maccanico. Il quale sapeva che le cose erano andate in tutt’altro modo ma non fiatò: «Non potevo smentire il mio presidente» confidò vent’anni dopo a Maria Teresa Meli del “Corriere”.
Poi venne Cossiga, e Maccanico rimase al suo posto anche con lui. Finché il governo gli assegnò la stessa poltrona che era stata dello zio Adolfo: presidente di Mediobanca. E anche in quel caso — c’era da fare un’ardua privatizzazione — riuscì a mettere d’accordo un gran numero di banchieri e imprenditori, al punto che persino l’algido Cuccia arrivò a parlare di «miracolo di sant’Antonio». A quel punto, la politica lo catturò. Ministro per gli Affari regionali nel governo De Mita, ai Problemi Istituzionali con Andreotti, alle Telecomunicazioni con Prodi, alle Riforme Istituzionali con D’Alema, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Ciampi, “l’alchimista” era sempre
l’uomo al quale tutti affidavano la ricerca dell’accordo più difficile. E infatti fu a lui che Oscar Luigi Scalfaro si rivolse dopo la caduta del governo Dini (1996) nel tentativo di evitare le elezioni anticipate. Maccanico ebbe l’incarico di formare un governo di larghe intese, e buttò giù un programma che prevedeva il semipresidenzialismo.
Era quasi fatta, ma Fini disse no. E allora lui se ne tornò in punta di piedi ai suoi libri, alle sue partite a tennis, ai suoi convegni, alle sue sonate di Mozart, all’amatissima moglie Marina (ex campionessa di “Lascia o raddoppia?”). Non aveva rimpianti. «Ho avuto la fortuna di avere incarichi interessanti senza darmi assolutamente da fare per ottenerli» disse una volta. Anche in questo, è stato unico.