Valentina Arcovio, La Stampa 24/4/2013, 24 aprile 2013
L’AVANZATA DELLA NUOVA AVIARIA
Da poco meno di un mese un nuovo virus dell’influenza aviaria, H7N9, è apparso in Cina e ha già contagiato oltre 100 persone, uccidendone 21. La maggior parte dei casi è concentrata a Shanghai e nelle tre zone limitrofe di Jiangsu, Zhejiang e Anhui fino alla capitale Pechino. I casi però hanno iniziato a moltiplicarsi a ritmi preoccupanti. Secondo quanto riferito ieri dalle autorità cinesi, il virus avrebbe raggiunto anche la provincia dello Shandong.
Pur non essendo letale come l’H5N1, ovvero «la vecchia versione» dell’aviaria, le modalità di contagio del nuovo virus iniziano ad allarmare. Anche se sappiamo solo che H7N9 si trasmette dai volatili infetti all’uomo, il nuovo virus ha già acquisito alcuni cambiamenti genetici che dimostrano un adattamento ai mammiferi e agli esseri umani. Mentre, infatti, il ministero della Salute cinese ribadisce che i casi di contagio sono ancora isolati e che non c’è dimostrazione di una diffusione del virus direttamente da uomo a uomo, i risultati di un nuovo studio pubblicato sulla rivista «Eurosurveillance» fanno temere che questo passo possa essere raggiunto rapidamente.
Un gruppo di ricercatori, coordinati da Masato Tashiro dell’«Influenza virus research center» del Giappone e da Yoshihiro Kawaoka delle Università del Wisconsin-Madison (Usa) e di Tokyo, ha scoperto che la «nuova aviaria» si è infatti adattata all’uomo. Nonostante sia ancora troppo presto per predire il potenziale pandemico della nuova influenza, le analisi delle sequenze genetiche di H7N9 di quattro vittime umane del virus e di campioni derivati da uccelli mostrano segni inequivocabili di questo adattamento. «Nel caso del campione umano, ma non in quello degli uccelli, si è riscontrata la mutazione di una proteina che permette l’attecchimento del virus nelle cellule umane. Si è anche visto che questa mutazione permetterebbe al virus di svilupparsi a temperature proprie al tratto respiratorio alto dell’uomo, che sono minori di quelle dello stesso tratto negli uccelli», afferma Kawaoka. L’Organizzazione mondiale della Sanità sta valutando la situazione. Ma, come è successo qualche anno fa per la suina, siamo già arrivati ai massimi livelli di allerta. Del resto, la sorveglianza di virus che possono essere una minaccia per l’uomo è diventata una priorità crescente. La prossima grande pandemia è infatti una questione di «quando» e non di «se». Questo perché condividiamo il Pianeta con moltissime altre specie animali, potenziali veicoli di malattie.
Nei cinque anni passati c’è stato uno spostamento significativo dal semplice monitoraggio delle tendenze delle malattie nella popolazione umana a un sistema più globale di sorveglianza, teso a capire l’intricata relazione tra natura, ecosistemi e salute umana. Veterinari, biologi della conservazione, medici, antropologi ed epidemiologi sono ora nel mezzo di uno sforzo coordinato per evidenziare i fattori di rischio legati alla nascita di nuovi virus prima che passino all’uomo e si diffondano. Circa il 60% di tutte le infezioni umane attuali e il 75% di quelle emergenti, infatti, sono zoonotiche, originate cioè dagli animali. Questo processo comprende l’Hiv, varianti dell’influenza come l’aviaria e la suina, Ebola, il West Nile virus e quello che causa la Sars.
«Fino a questo momento conosciamo solo un numero relativamente piccolo di specie che ospitano virus che sappiamo colpire la salute umana - spiega Jonathan Epstein, veterinario epidemiologo dell’organizzazione internazionale EcoHealth Alliance -. In quasi tutti i casi di malattie zoonotiche il passaggio all’uomo è dovuto all’attività umana stessa, come il degrado degli habitat, l’agricoltura intensiva e il commercio di specie selvatiche». Spesso il contagio inizia da animale a uomo, ma la preoccupazione è che i virus possano mutare per diventare trasmissibili tra umani.
Qualche anno fa due gruppi di scienziati, uno olandese e l’altro americano, furono in grado di modificare H5N1 e di ottenere una varietà molto più pericolosa. Dai risultati era evidente che cinque mutazioni erano sufficienti a rendere il virus direttamente trasmettibile da furetto a furetto e ad aumentare la resistenza del virus ai farmaci noti, mantenendo tuttavia il medesimo grado di mortalità (circa il 50%). Per questo motivo gli esperti ritengono che solo un approccio olistico alle relazioni tra salute animale, benessere umano ed ecosistemi può fornire una soluzione: dai segni precoci d’allarme all’identificazione dei movimenti attraverso i continenti di virus potenzialmente pericolosi.
Nel luglio 2012 un rapporto dell’«International livestock research institute» (pubblicato da «Nature») ha mappato le regioni «calde» del passaggio delle malattie tra animali e uomini e, tuttavia, molte questioni rimangono insolute. E’ ancora difficile, per esempio, stabilire che cosa causerà una futura pandemia. La prospettiva più preoccupante - di certo - è un’unione di geni di un virus con quelli di un altro, un processo noto come «riassortimento», formando così un nuovo agente, molto più letale.
«E’ veramente una lotteria - sottolinea Epstein - capire dove e come un salto di specie sia un’opportunità per i patogeni degli animali selvatici di adattarsi a un nuovo ospite. Ed è proprio qui che c’è il rischio. Se capiremo meglio ciò che facilita i salti e lavoreremo per limitare questi processi, saremo più protetti: non solo da ciò che conosciamo, ma anche da ciò che non conosciamo ancora».