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 2013  aprile 23 Martedì calendario

FRULLATO NEW YORK

Il legame più stretto tra l’Empire State e l’antico Impero Romano si può leggere nell’imponente opera di Keith Edmier, che accoglie i visitatori al centro della Rotonda del Palazzo delle Esposizioni. La scultura si intitola «Penn Station Ciborium». È alta quasi sei metri e misura quattro metri di larghezza per quattro di profondità. Rappresenta un immenso ciborio, struttura a baldacchino costruita sull’altare, ed evoca la Pennsylvania Station di New York, il capolavoro architettonico costruito nel 1910 da McKim, Mead & White, che si ispirarono alle Terme di Caracalla.
La stazione fu rasa al suolo nel 1963 e i resti furono buttati senza tante cerimonie nei campi del New Jersey. Edmier, quando è stato chiamato a realizzare un’opera per il Palaexpo, è andato su quei campi e ha dissotterrato un tratto di binario in acciaio a forma di X, proveniente dalla mitica Station. Lo ha chiuso in una scatola e sopra la scatola ha innalzato questo ciborio fatto di legno, acciaio, calcestruzzo, vetro resina, fibra di vetro, poliuretano, frammenti di rotaie e terra del New Jersey. Le colonne e le capriate in acciaio, che riprendono quelle dell’atrio della Penn Station, sostengono una cupola contenente un oculus che ricorda quello del Pantheon, allude al baldacchino del Bernini e si allinea perfettamente con quello della Rotonda del Palaexpo.
Edmier sostiene di aver voluto creare una specie di reliquario. Il senso della rovina e del declino sarebbe accentuato, alla base delle colonne, dai grappoli di ostriche che un tempo costituivano una delle risorse naturali di New York e oggi sono quasi scomparse, devastate dall’inquinamento.
La rovina e il declino dell’Impero sono il filo rosso che unisce tutte le opere dei venticinque artisti presenti alla mostra «Empire State. Arte a New York oggi» al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Un progetto partito tre anni fa, concepito dallo statunitense Alex Gartenfeld e dal britannico sir Norman Rosenthal con l’intento di esplorare i miti e le mutevoli realtà della metropoli americana. Il titolo ha più di un riferimento. A cominciare dal «The Course of Empire» del visionario pittore Thomas Cole che tra il 1833 e il 1836 raffigurò in una serie di grandi tele l’ascesa e la distruzione di una città immaginaria, situata, proprio come Manhattan, alla foce di un fiume. «Oggi a Roma gli artisti di "Empire State" utilizzano allegorie simili per illustrare le trasformazioni socio-economiche degli Stati Uniti e le loro ripercussioni sul ruolo, la fiducia in sé e la distribuzione del potere nella nazione», annotano i curatori.
Al tempo stesso, mentre gli esperti ne annunciano regolarmente il declino, nella Grande Mela si concentra ancora gran parte della ricchezza mondiale. E la città continua a mantenere il ruolo di capitale mondiale delle arti visive, conquistato negli anni Cinquanta del Novecento. Se infatti oggi l’arte contemporanea si è diffusa a tappeto in tutto il pianeta e non ha più importanza il luogo dove un artista produce le proprie opere, tuttavia «avere successo a un certo livello significa essere accettati dal pubblico e dalla critica newyorkesi», come precisa Rosenthal.
Provengono tutti da New York gli artisti di «Empire State». Ci sono nomi noti, come Jeff Koons (conosciuto da noi come ex marito di Cicciolina), che qui presenta una scintillante e smeraldina Venere Metallica, in acciaio inossidabile lucidato a specchio, e la recente serie Antiquity, con fotografie di statue greche su un fondo puntinato multicolore alla Lichtenstein. O come Julian Schnabel che ha scansionato pannelli di carta da parati dell’Ottocento francese, ingrandendo le immagini e stampandole su poliestere. Rob Pruitt ha costruito dinosauri cromati in scala che fissano quadri made in China raffiguranti montagne di cianfrusaglie. John Miller ha fotografato famiglie a passeggio nelle strade di periferia e ha ingrandito a dismisura le immagini stampandole in bianco e nero con un effetto di incisione. Virginia Overton è arrivata a Roma, ha trovato in un cumulo di materiali edili un tubo di ferro lungo parecchi metri e l’ha appeso in diagonale alla parete del Palaexpo. «Nel mio lavoro uso molto le forze dell’equilibrio e del bilanciamento», ha spiegato.
Lauretta Colonnelli