Sergio Bocconi, Corriere della Sera 23/04/2013, 23 aprile 2013
L’ORIZZONTE LUNGO DI CARLI, TECNICO DI GOVERNO E IL VINCOLO ESTERNO CHE GUIDA (ANCORA) L’ITALIA
Diceva nel traffico romano all’autista Maurizio: «La sirena? No, altrimenti gli italiani mi fanno le corna». E a chi lo accusava di una politica monetaria lassista nei primi anni Settanta, rispondeva così: «Potevo io ignorare i cortei degli studenti quattordicenni che sfilavano sotto la mia finestra di Via Nazionale?». E ancora, diceva dopo la firma del trattato di Maastricht: «Auspico che il nuovo vincolo esterno rappresentato dall’Unione economica e monetaria sia anche l’ultimo». Frasi che descrivono l’anima e l’impegno di Guido Carli, tecnico attento alla società, politico che coltivava l’ambizione della responsabilità accanto all’orgoglio di essere élite, vigile sul consenso ma convinto soprattutto della necessità del «vincolo esterno» per indirizzare il cammino del nostro Paese.
E a vent’anni dalla sua scomparsa, il 23 aprile 1993, gli italiani pronti «a fare le corna», il dibattito sulle politiche economiche tra povertà di bilancio e risorse introvabili contro recessione e disoccupazione, l’indipendenza delle autorità monetarie, e soprattutto il «vincolo esterno» con la relativa cessione di sovranità, sono ancora i temi che animano la nostra vita politica, paradigmi e divisioni che ritornano nella crisi, attraversano la classe dirigente. Talvolta sono necessari esercizi di stile per intravedere l’attualità nel passato. La figura e l’opera di Carli, governatore di Banca d’Italia, presidente di Confindustria, alto dirigente nel gruppo Fiat, senatore dc, ministro del Commercio estero e del Tesoro rendono superfluo qualsiasi sforzo tale è la continuità narrativa.
In fondo quell’idea di «vincolo esterno» diventa per Carli il filo conduttore fin quasi dall’inizio della sua carriera. Nato a Brescia nel 1914, si laurea in giurisprudenza a Padova dove ha per maestro l’economista Marco Fanno. Dopo i primi passi a all’Iri, dove entra nel 1937 grazie anche all’amico di famiglia Giovan Battista Montini (poi Paolo VI), che lo introduce ad Alberto Beneduce e Donato Menichella, e legatosi a Luigi Einaudi nella clandestinità romana della primavera 1943, partecipa nel 1946 alla delegazione per il trattato di pace e l’anno dopo alla prima missione di Alcide de Gasperi negli Stati Uniti. Negli stessi mesi è protagonista del negoziato che porta all’adesione italiana agli accordi di Bretton Woods, la nuova architettura del sistema monetario internazionale, e nel maggio 1947 è il primo executive director italiano del Fondo monetario internazionale. Nel 1950 è presidente dell’Unione europea dei pagamenti. Presiede il Mediocredito per tre anni e nel 1956 approda all’Ufficio italiano cambi: lo guida e, in questa veste, è stretto collaboratore del Governatore.
Il suo primo incarico di governo, chiamato dal dc Adone Zoli nel 1957 a ministro per il Commercio con l’estero, rivela l’autonomia di Carli: quando l’esecutivo pensa all’espulsione di Roger Peyrefitte, che aveva pubblicato il pamphlet contro il Vaticano «Le chiavi di San Pietro», lui scrive allo scrittore francese manifestandogli solidarietà e presenta le dimissioni, che vengono respinte. Il governo ha comunque vita breve e Carli torna a incarichi tecnici con la presidenza del Crediop, un anno dopo è nominato direttore generale della Banca d’Italia e nel 1960 ne diventa Governatore con il passaggio delle consegne da parte di Menichella. Ricopre quella carica per 15 anni.
In Via Nazionale arriva con lui un «manager» che progetta di rendere Bankitalia il più autorevole punto di riferimento per l’economia italiana. Con collaboratori del calibro di Mario Sarcinelli, Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi, Paolo Savona, il disegno gli riesce senza difficoltà. Ma non è il solo «segno» lasciato da Carli. Si oppone alla nazionalizzazione dell’industria elettrica. Sulle banche esercita una crescente influenza con vincoli amministrativi e controlli finanziari che «sacrificano» la libera concorrenza per indirizzare i flussi di risparmio. E sul piano dei prezzi nel 1964 ne contrasta la spinta al rialzo con rigore quasi "monetarista". Poi, nei primi anni Settanta, finanzia il disavanzo con rischi inflazionistici. E difende la sua posizione dicendo che, un rifiuto di Bankitalia avrebbe «l’apparenza di un atto di politica monetaria, nella sostanza sarebbe un atto sedizioso, al quale seguirebbe la paralisi delle istituzioni». Posizioni che gli costano l’accusa di sottomissione alla politica. «La verità è che Carli è stato uno sperimentatore. Aderiva alla massima di Roosevelt: se una soluzione non funziona bisogna provarne un’altra», dice Savona. E’ però vero che dieci anni dopo lo stesso Carli ha ammesso che un rifiuto di agevolare il finanziamento del Tesoro avrebbe indotto la classe politica a contenere i disavanzi.
Negli anni del suo «regno» in Bankitalia, il sistema finanziario è scosso dal ciclone Michele Sindona. Carli, con Enrico Cuccia, contribuisce a far fallire l’Opa su Bastogi. Con il ministro del Tesoro Ugo La Malfa non autorizza l’aumento di capitale Finambro. Sul piano dei provvedimenti non interviene subito, come suggerito invece dagli ispettori, riportando tutto alla magistratura. Si muove per soluzioni non traumatiche ma alla fine l’impero crolla e nel settembre 1974 nomina Giorgio Ambrosoli commissario liquidatore.
Nel 1976 Giovanni Agnelli lo «porta» in Confindustria: la sua nomina a presidente è in pratica per acclamazione. Ma, dice Cesare Romiti, «gli imprenditori lo stimano, ne hanno timore, ma non discutono con lui, non lo amano». La sua battaglia contro i «lacci e lacciuoli» dello Stato è un appello alle responsabilità degli industriali che «devono ricercare un sistema politico che permetta l’innovazione economica». Come ha sottolineato Mario Draghi nel 2009: «Gli imprenditori dell’epoca non gradirono». Il suo statuto d’impresa, in pratica la prima legge Antitrust, non passa.
Senatore dc nel 1983, ministro del Tesoro nel settimo governo di Giulio Andreotti, difende la lira forte della sua credibilità. Apre alle privatizzazioni «contro» lo Stato delle «merendine» (quelle della Sme). Ha un ruolo determinante per il nostro Paese a Maastricht anche se non riesce a porre un freno al nostro disavanzo. Secondo Savona per «convincere Andreotti a firmare ha dovuto fare concessioni incoerenti» sul fronte delle pensioni. Carli dirà di aver cercato di sbarrare la strada sul debito pubblico a una «classe politica screditata» che non «ha forza né autorità morale per far accettare sacrifici ai propri elettori dopo aver largheggiato nel distribuire privilegi». L’Italia aderisce al trattato e il «capolavoro» di Carli, sottolinea Sarcinelli, è il ruolo forte nell’introduzione della flessibilità per il debito pubblico che ha poi permesso al Paese di entrare nell’euro. L’ultimo dei «vincoli esterni»? Senz’altro è l’ultimo auspicio dell’uomo di Stato che ai giornalisti ha spiegato il trattato di Maastricht citando il Faust di Goethe, che si definiva «poco più di un civil servant», salutava i doganieri alla frontiera come rappresentanti delle istituzioni (lo testimonia Romiti) e rispondeva così alla nipote Romana: «Nonno, sei l’uomo più ricco d’Italia?» «Forse solo il più onesto».
Sergio Bocconi