Alec Cordolcini, La Gazzetta dello sport 23/4/2013, 23 aprile 2013
INTERVISTA ARIE SCHANS
Bhutan, Mozambico, Namibia, Cina: l’olandese Arie Schans, 60 anni, è un globetrotter estremo del calcio. Il mondo chiuso in una valigia, tra lo spazzolino da denti e un manuale di tattica. Più che un allenatore, un insegnante, come ama definirsi. «Lavoro per l’accademia degli allenatori della KNVB (la Federcalcio olandese, ndr). Quando un Paese calcisticamente poco sviluppato chiama, noi accorriamo e studiamo un piano di intervento. Adesso sono in Cina, sto preparando la provincia dello Shanxi ai Giochi Cinesi in programma ad agosto».
Per noi italiani oggi Cina significa Marcello Lippi.
«Ammiro Lippi e il lavoro che sta facendo: rispetta la cultura locale e non si è mai messo su un piedistallo. Va anche detto che gode di un vantaggio: è finanziariamente indipendente. Può andarsene quando vuole e non è poco quando hai a che fare con dirigenze che si aspettano ottimi risultati in 6-8 settimane».
È capitato anche a lei?
«Io ho avuto un problema diverso. Quando nel 2007 divenni vice di Gao Hongbo al Changchun Yatai, introdussi la giornata di riposo nel programma degli allenamenti. Apriti cielo. "Lei e i giocatori siete pagati per lavorare 7 giorni su 7", mi disse un dirigente. Tenni duro. Dicevo: non voglio fare di voi degli olandesi, ma non voglio nemmeno diventare io un cinese. Alla fine passò la mia linea e vincemmo il titolo».
Che cosa la accomuna a Marcello Lippi?
«Sicuramente non il conto il banca... Scherzi a parte, entrambi abbiamo disputato, e vinto, una finale mondiale. Solo che la mia era The Other Final, organizzata dalla Fifa nel 2002».
Bhutan contro Montserrat, la numero 203 contro la numero 204 del ranking Fifa. Come è finito in Bhutan?
«Allenavo in Giappone da 6 anni il Nittai Dai, una squadra universitaria. Mi chiesero se volessi guidare una nazionale. Quando atterrai in Bhutan mi trovai di fronte a un vecchio presidio militare circondato da una distesa sabbiosa indurita dal gelo: era il loro campo di allenamento. Entro in una caserma adibita a spogliatoio e trovo un foglio stropicciato col programma di allenamento del precedente tecnico, un sudcoreano. C’era scritto: "Ripetute e corsa in montagna, l’Himalaya, mattina e pomeriggio". Pensai: ma questi ragazzi devono giocare a calcio, non fare la maratona. Comunque vincemmo 4-0, fu una festa incredibile. Il Ministro degli Interni locali mi disse che non avrebbe fatto decollare gli aerei pur di trattenermi in Bhutan».
E lo fece?
«Decisi di rimanere per un torneo a Calcutta. La raggiungemmo dopo un viaggio di due giorni. I giocatori rimasero ammutoliti dai 36 piani dell’hotel: in Bhutan una legge reale vieta la costruzione di palazzi con più di quattro piani. Non si fidavano a salire sull’ascensore».
Nel suo curriculum c’è anche l’Africa.
«Lavoravo in Mozambico e prima della Coppa d’Africa 2008 mi affidarono la Namibia per la morte di Ben Bamfuchile. Ricordo il portiere, Athil. Un gatto, peccato fosse quasi completamente sordo. Provammo a farlo giocare con un apparecchio acustico, ma gli scivolava dall’orecchio. Tentammo con un caschetto alla Cech, ma non funzionò. Fui costretto a tenerlo in panchina».
Altri ricordi africani?
«Nel 2005 con l’Under 23 del Mozambico andammo a Macao per un torneo. Fu un disastro. Molti dei miei giocatori erano abituati a mangiare non più di 4-5 volte a settimana, e quando si trovarono di fronte a un buffet post-partita lo polverizzarono. Finirono k.o. causa indigestione. Nelle rimanenti partite fu un’impresa metterne insieme 11».
L’esperienza più bizzarra?
«Nello Zimbabwe, giugno 2008, l’inflazione cresceva ora dopo ora e mi ritrovai a pagare un’arancia con un cumulo di carta che equivaleva a tre milioni di dollari locali».
Quella più pericolosa?
«Con la Namibia. A Conakry, la capitale della Guinea nel 2008. Arrivammo distrutti da un viaggio massacrante e ci trovammo sequestrati in albergo, con il coprifuoco imposto dal governo e la città in rivolta».
E la più bella?
«Prima di The Other Final andai con i giocatori del Bhutan a visitare un monastero antichissimo. Sono stato il primo e - credo - unico straniero ad aver mai messo piede in quel luogo. Un’emozione indescrivibile che vale dieci finali vinte».