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 2013  aprile 23 Martedì calendario

INTERVISTA A GENE GNOCCHI

Lo sport, le parole, l’ironia: Gene Gnocchi unisce tre universi e li fa diventare una cosa sola, un libro. «Il Gene dello Sport» (a cura di Silvia Guerriero, edizioni Bompiani) è la summa degli scritti apparsi su SportWeek. Esilaranti quadretti che mischiano realtà (le esperienze vissute dall’autore) e surrealtà. E il cui risultato è ciò che, in questo momento di grigiore, tanto ci manca: una risata, una bella, sonora e grassa risata che seppellisce tutto (e tutti).
Signor Eugenio Ghiozzi...
«Se usa il mio nome vero, vuol dire che quest’intervista è una cosa seria...».
Ci proviamo. Dunque, quando ha incontrato il mondo dello sport per la prima volta?
«A quattro anni. Mia mamma faceva la parrucchiera e davanti al negozio c’era un campetto dove io giocavo dalle due del pomeriggio alle otto di sera. Ero bravino. A nove anni vengo tesserato per la Fidentina, che era la società legata al Partito Comunista e siccome mio papà era un compagno… E poi il debutto in Promozione a sedici anni».
Una carriera di nicchia.
«Tutta in provincia. Ma se quella volta mi avessero preso al Milan...».
Ci racconti.
«Vado a fare il provino ai campi di Linate, era il 1971. Gioco bene, mi fanno fare anche le visite mediche. Poi non mi prendono perché il campionato dove avrei dovuto giocare, il De Martino, quell’anno lo aboliscono. Così finisco all’Alessandria».
Che rabbia!
«Ma no, io mi sono divertito lo stesso. E ho guadagnato. Guardi, ho cambiato tante squadre perché ogni volta mi davano uno stipendio superiore. A Castiglione delle Stiviere, provincia di Mantova, alla fine degli anni Settanta prendevo 15 milioni all’anno. Mica male, no?».
Guadagnava e si divertiva, dicevamo.
«Gli spogliatoi erano il mio regno. Una volta, lì dentro, ci ho chiuso i miei compagni perché non avevo voglia di allenarmi: li ho tenuti prigionieri per due ore. A Vigolzone, una domenica, pioveva che Dio la mandava. Arriva l’arbitro e dice: "Si gioca lo stesso". Io mi arrabbio, vado dal custode dello stadio, mi faccio dare una sedia e una canna da pesca, e mi piazzo in mezzo al campo. Insomma, ero un po’ matto. A Viadana ho giocato con un paio di baffi finti, per esempio».
Tutti episodi che, in un modo o nell’altro, sono finiti nel libro.
«La realtà mi ha sempre ispirato. Nello sport, quello professionistico, quello di cui parlano tutti, ci si prende troppo sul serio. Ma lo sapete che i giocatori di Promozione, adesso, hanno il procuratore... E ci sono allenatori di squadre giovanili che parlano di diagonali e ripartenze... Ma rilassatevi!».
Che cosa la fa imbestialire dello sport di oggi?
«Io mi arrabbio quando sento un atleta che, a proposito di un suo gesto e del gesto di un compagno, dice: "Tanta roba". Ma tanta roba cosa? Non sei capace di articolare una frase, un discorso? Sei messo così male? La verità è che i giocatori vivono in un mondo tutto loro, gli pagano perfino le bollette, della vita reale non sanno nulla».
Quali sono i personaggi che la ispirano di più?
«Una volta c’era Edmeo Lugaresi, il presidente del Cesena: un cinema, quando parlava non si capiva niente. Adesso mi diverto moltissimo con De Laurentiis e Lotito. Provate a sbobinare una loro intervista e ditemi se riuscite a seguire il filo del loro discorso: è impossibile. Non gli si può stare dietro...».
Ha dei modelli letterari?
«Nessuno in particolare. Però mi piace rileggere Achille Campanile, Ennio Flaiano e i corsivi di Fortebraccio, quelli che faceva per l’Unità. Ci sono nato e sono cresciuto con quei corsivi, mio padre comprava solo l’Unità...».
Curiosità: come e quando scrive?
«Di solito in mezzo al casino. Possibilmente con la televisione accesa. E i personaggi li prendo dalla vita vera. Se parlo di un presidente che paga i giocatori in natura, un maiale per ogni gol ad esempio, è perché io di quell’esperienza sono stato testimone».
Che cosa c’è di sacro nello sport?
«Nel calcio soltanto i 90 minuti del gioco. Il resto è zona franca, vale tutto: puoi fare e dire ciò che vuoi. E lo stesso discorso vale per tutti gli altri sport. Prendersi troppo sul serio, lo ripeto, fa venire il mal di fegato...».
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