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 2013  aprile 12 Venerdì calendario

NAPOLITANO, L’ULTIMO COMUNISTA CHE DIVENTO’ IL NUOVO RE D’ITALIA

«C’è sempre stata in Napolitano, fun­zionario d­i parti­to rigoroso e fede­le nell’applicazione dei dettati, un’attrazione verso tutto ciò che con il Pci sembra non poter essere compatibi­le. La sua autobiografia pubblica è co­stellata di incontri speciali che tra­manderanno di lui il profilo di un co­munista anomalo, già postcomunista senza mai diventare ex comuni­sta». È questo uno dei passaggi più si­gnificativi della monografia che Pa­squale Chessa ha dedicato al presidente della Re­pubblica: L’ul­timo comuni­sta (Chiarelet­tere, pagg. 248). Il titolo, però, sarebbe stato più espli­cativo se fosse stato aggiunta la parola italiano: L’ultimo comunista ita­liano. Sì, per­ché, attraver­so la biografia di Napolitano, è possibile scorgere la spe­cificità del co­munismo del nostro Paese; un comuni­smo per molti versi anomalo rispetto al tragitto politico di gran parte del comuni­smo europeo. Allo stesso tempo dalla biografia di Chessa la figu­ra di Napolita­no sembrereb­be quasi emer­gere come quella di un uomo dispo­nibile per tutte le stagioni, capace di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Si sbaglierebbe tuttavia nel vedere in Napolitano un politico ma­chiavellico e opportunista. Piutto­sto, per Chessa bisogna capire in che senso questa «adattabilità» sia stata l’espressione di una tendenza teori­ca e strategica all’interno del partito.
Essa, infatti, altro non è stata che la manifestazione di un approccio rea­li­stico e storicistico alla politica.
La vita politica di Napolitano, so­no ancora parole di Chessa, è tratteg­giata da «scelte incompiute, mezze sconfitte e quasi vittorie».Se non che proprio questa specificità spieghe­rebbe perché la storia abbia alla fine assegnato a Giorgio Napolitano un ruolo paradossale. Il paradosso con­siste­ nel fatto che la sua continua prudenza si è risolta in un atteggiamen­to fortemente decisionista, tanto da poter dire che con lui si amplia «con misura e costanza il perimetro del po­tere della parola presidenziale». La crisi della Prima repubblica ha co­stretto Giorgio Napolitano ad assumere una guida politica del Paese da cui è scaturita «una geometria del po­tere che, senza infrangere la lettera della Costituzione, ne ha modificato per sempre la sostanza». Secondo la vulgata mediatica, egli è ormai diven­tato Re Giorgio.
Chessa ricostruisce tutti i passaggi più significativi della vita politica di Napolitano, dal momento della sua adesione al partito comunista (1945) fino al settennato al Quirina­le. In tal modo vengono anche deli­neati alcuni momenti fondamentali della storia del comunismo italiano e, più in generale, della storia politi­ca del Paese. La formazione politica di Napolitano durante la Guerra fred­da, il momento drammatico rappre­sentato dalla rivolta d’Ungheria, la morte di Togliatti e il problema della sua successione, lo strappo del parti­to (poi in gran parte ricucito) con l’Unione Sovietica dopo la Primave­ra di Praga (1968), il compromesso storico perseguito da Berlinguer, il duello a sinistra fra socialisti e comu­nis­ti negli anni del protagonismo cra­xiano, la caduta del muro di Berlino, la fine del partito e il travaglio dei co­munisti italiani che non hanno il co­raggio di decidere per una rottura netta con il passato. Di qui tutte le oc­casioni mancate dai comunisti per diventare fino in fondo- e senza rimpianti - dei veri socialdemocratici.
In tutti questi appuntamenti deci­sivi, l’atteggiamento di Napolitano è quello di un comunista che vorreb­be portare il partito sulla strada del ri­formismo, cercando soprattutto un’alleanza con i socialisti. Egli po­trebbe essere definito un «togliattia­no di destra» che ha a lungo cercato di adattare il passato al presente, sen­za tuttavia mai rinnegarlo. La sua aspirazione si è caratterizzata in sen­so riformistica, al contempo egli vuo­le mantenere una continuità con gli ideali comunisti. Il realismo di Napo­litano è stato il realismo­ della concre­tezza e si basato sulla consapevolez­za che in Italia non era possibile una rottura rivoluzionaria in grado di por­tare il partito al potere.
Un esempio paradigmatico delle suddette contraddizioni- di Napoli­tano e più in generale di tutta l’ala ri­formista (ma si potrebbe dire di tutto il partito nato dalla “svolta” di Saler­no)- si può trovare in una sua dichia­razione del 1990: «non rinnego e non mi pento dei miei 45 anni nel Pci». Ma allora, viene da chiedersi, come è possibile conciliare la volontà di non rinnegare la propria militanza politi­ca con il riconoscimento del grave er­rore compiuto allorché, da parte del­lo stesso Napolitano, si giustificò la repressione sovietica in Ungheria? Insomma, è un po’ difficile salvare capra e cavoli.