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 2013  aprile 07 Domenica calendario

LA SCOPERTA DELLE 6 BALETTE


Hanno finalmente trovato le palline. Di quello che ora chiamiamo Tennis, ma che nel 1500 chiamavano Giuoco di Rachetta. Pallina che allora chiamavano balla, o baletta.Nei miei lunghi studi, nelle mie ricerche negli anni Settanta, già ne avevo rinvenuta un´immagine contrassegnata "di Palazzo Labia", e subito pubblicata nel mio librone 500 anni di tennis. Ma avrei saputo in seguito dal collega Massimo De Luca che della pallina esisteva, in un quadro di Palazzo Labia, solo l´immagine dipinta, così come, sempre a Venezia, nel Museo Querini Stampalia, c´è uno dei più importanti quadri che raffigura un doppio del 1750 di Gabriel Bella, e quindi ben più tardo.
Un giorno mi ritrovo a Mantova, all´uscita da una chiacchiera del Festival di Letteratura, e un bel signore mi si avvicina, si presenta, Professor Ugo Bazzotti, e sorridendo apre una busta, e ne trae tre foto. Recano, le foto, l´immagine di tre palline, diverse una dall´altra, ma tutte con un diametro tra i quaranta e i cinquanta millimetri, tra i trenta e i quaranta grammi - mi dice - a soppesarle.
Non diversamente dev´essere accaduto a un cercatore d´oro nell´inciampare in una pepita, per caso, occupato com´era a tutt´altro.
La struttura delle palline me le fa subito apparire come le bisnonne di quelle tuttora in uso nel gioco definito Real Tennis nei paesi di lingua inglese, e Jeux de Paume in quelli francesi. Gioco ancora praticato, nel mondo, secondo il grande esperto parigino Gil Kressmann, in tre club francesi, nove americani, ventitré inglesi e tre australiani, su uno dei quali, nelle mie gite a Melbourne, ho tirato qualche racchettata, insieme ad un amico, Michael Wooldridge, che ha svolto un´attività che più lontana dal Rinascimento è difficile immaginare, quella di ministro degli aborigeni. Il Jeux de Paume è ormai purtroppo semisconosciuto in Italia, il paese che nel Quattro-Cinquecento rivaleggiava con Francia e Spagna nel primato di quello che ancora non si chiamava sport, ma faceva parte dei divertimenti di corti e monasteri. Ora simile tennis vivissimo durante il Rinascimento è da noi quasi dimenticato nonostante il tentativo della mia amica e storica Alessandra Castellani di ridar vita al campo rinvenuto nel Castello di Venaria, la residenza dei Savoia.
In effetti, il tennis di quei tempi, lo si voglia chiamare Giuoco di Rachetta, Giuoco di Balla o Baletta, oppure in spagnolo Pelota, o Trinquete, o ancora in francese Jeux de Paume ("palmo", come quello della mano, precedente l´invenzione della racchetta, strumento che esiste in cento documenti ma non è mai stato ritrovato, a differenza delle palline mantovane) questo gioco, insomma, è il padre del Lawn Tennis, adattato, ma non certo inventato dagli inglesi. Infatti, con molta probabilità, confermata addirittura dai miei studi, questo passatempo chiamato tra l´altro Tenez ("prendete", sottinteso la palla, lanciata dal battitore con l´aiuto, "servizio", di un collaboratore), emigrò di Francia in Gran Bretagna, insieme ai cavalieri che accompagnarono Marie de Couci, andata sposa ad Alessandro terzo Re di Scozia. E, insieme all´ambasceria, emigrarono anche i termini della paume che permangono nel gergo tennistico contemporaneo. Oltre al citato Tenez che forse si tramutò in Tennis, il Love che significa zero discese da l´Oeuf, "l´uovo", rotondo come uno zero, e Volley, "volata", fu neologismo da Volée, Quel che scrivo è largamente illustrato da molti documenti, tra i quali alcune righe di Shakespeare che nomina una "tennis ball" nell´Enrico V, dramma che si svolge all´inizio del 1400.
Accadde che, in seguito all´importazione ottocentesca e all´utilizzazione della gomma, i britanni avessero l´idea di trasportare l´antico gioco, dai selciati in pietra indoor, sui prati (Lawn) dei giardini, dove precedentemente non era possibile il rimbalzo delle palline similmantovane, costruite come ancora accade con quelle del Real Tennis. Costruite, cioè, in pelle, con una scheletro di filo rigido e, all´interno, un denso pelo espanso, spesso di capigliature femminili, oppure di qualche animale, come ad esempio il gatto - ormai roso dai topi - delle balette mantovane. Ma ritorniamo all´inizio.
Ricordo che in quel giorno dedicato ai libri del Festival, come fui ritornato alla mia biblioteca con le tre incredibili foto aprii subito uno dei miei testi più cari, Il Trattato del Giuoco della Palla del mio antenato adottivo Antonio Scaino da Salò, il maggior esperto di "Balla e Rachetta" del Cinquecento, un genio col quale mi accade di colloquiare durante le sedute spiritiche. Il suo trattato esiste ormai soltanto in una quindicina di copie nel mondo, e io stesso sono riuscito a ottenerne una, devolvendo, nella combattutissima asta dell´hotel Druot di Parigi, lo stipendio di un´intera annata di collaborazioni al giornale. Nei disegni contenuti nel Protolibro la baletta non era dissimile a quelle mostratemi a Palazzo Te, ma le loro struttura giungeva a ricordare anche quelle raffigurate nella Grande Encyclopedie di Diderot e d´Alambert (1751), che alla Paume e al suo sviluppo dedica addirittura otto pagine. Nel 1610 l´arte di produrre palle e racchette aveva condotto in Francia all´istituzione di una Comunità di Maestri - Rachettieri, Produttori di Palle - i soli abilitati a tali attività artigianali.
Ma, ritornando a Mantova per ammirare dal vero le balette, sarei venuto a conoscenza di una molto più antica presenza a Corte di "Mastri Balonari". Varcata la soglia del Palazzo, sarei trasecolato prendendo addirittura nel palmo (paume) della mano doverosamente guantata, le palline che Chiara Pisani, conservatrice del Museo Civico, mi andava offrendo, con cautela eguale allo charme.
Terminata l´osservazione delle palline, sarei stato condotto a visitare le fondamenta che restano del campo, dopo l´abbattimento del 1700-1800, "il quale era benissimo ad ordine, né cosa alcuna vi mancava di balle piccole". Campo in cui, durante una visita nell´aprile 1530, l´Imperatore Carlo V si impegnò nel "giocare a detta palla, lui e Monsignor di Balasone da una banda, e dall´altra il principe di Besignano e Monsignor de la Cleva, spagnolo. Giocarono a palla forsi quattr´ore, dove sua Maestà si esercitava molto bene et assai ne sa di tal gioco, e giocavano di vinti scudi d´oro la partita, dove alla fine sua Maestà perse sexanta scudi ". Simili partite delle quali rimangono cronache che potrei definire storico-sportive, sono citate in più di un documento. Nel benedetto libro sovramenzionato, la causa della pubblicazione - e insieme della dedica ad Alfonso II° d´Este - viene infatti attribuita a un "puntiglio avvenuto, giocando, a vostra Eccellenza" e cioè a un´interpretazione del punteggio sul quale il Duca e il giovane filosofo si erano trovati in dissenso. Si trattava di una partita tra due dei maggiori professionisti dei tempi, giocatori che offrivano i loro servizi alla nobiltà. Si trattava in questo caso di tale Gian Antonio Napoletano e Gian Fernando Spagnuolo, probabilmente impegnati in quella che chiameremmo esibizione.
Il punteggio di allora prevedeva, come oggi, una successione di tre punti, denominati quindici, trenta e quarantacinque (ora divenuto quaranta), complicati dalla necessità di superare le "cacce", e cioè i luoghi nei quali l´avversario aveva segnato il punto nel game precedente. Ma c´era, in più, un dettaglio importante. Il giocatore che si fosse trovato avanti per tre punti a zero, e avesse perduto i successivi cinque, doveva concedere all´avversario quel che veniva definita "vittoria rabbiosa", e cioè un punteggio di maggior valore di una vittoria semplice, quel che oggi denominiamo, in inglese, un game. Proprio da un dissenso sul tipo di vittoria relativo ai cinque punti successivi nasceva "quistione, se questo tal giuoco vinto dal Napolitano sia semplice, o rabbioso, che di ciò qui non accade dubitare".
Dalla lettura di simile libretto, che non a torto reca il titolo di Trattato, sarebbe sorta la mia curiosità per una ricerca, i cui risultati avrebbero condotto alla sorpresa, all´incredulità e, a volte, addirittura a ribellione sciovinista i presunti inventori del gioco tardottocentesco.
Ma, dopo essermi un tantino allontanato dal tema del mio compitino, mi sembra il caso di ritornare a Mantova, dove le sorprese di quella per me incredibile giornata non erano finite. Non lontano da Palazzo Te sorge infatti la Basilica Palatina di Santa Barbara, innalzata per volontà del Duca Guglielmo Gonzaga nel cuore del Palazzo Ducale a partire dal 1561 "con poca spesa …nel gioco della balla". Monsignor Giancarlo Manzoli spiega che, nel corso dei lavori di restauro condotti dall´architetto Mori, son state rinvenute altre tre palline, una delle quali addirittura dipinta a fiori, che erano murate in uno spioncino. Mi verrebbe da pensare che i ritrovamenti di tre più tre palline siano simbolicamente proporzionali al punteggio del gioco che, come ho detto, già da allora si svolgeva con definizione simile a quella odierna.
Ma occuparci ancora delle modalità dell´antico divertimento porterebbe a uno studio superspecialistico, all´esegesi che del Trattato fece nel 2000 il Professor Giorgio Nonni dell´Università di Urbino, altro centro del giuoco rinascimentale. Limitiamoci alla sorprendente duplice scoperta, e auguriamoci che, tra un secolo, un presunto perditempo non abbia a darne incredula notizia, delle palline, nuovamente dimenticate in qualche ripostiglio. Siamo i soli a possederle, nel mondo, ma siamo anche tristemente famosi per l´incuria del nostro patrimonio artistico.