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 2013  aprile 08 Lunedì calendario

DOPO GLI ARRETRATI ANCHE I FONDI UE. MOAVERO: E’ UN DOPPIO NEGOZIATO

Andrebbe chiamato il dilemma di Hayek, perché l’economista austriaco ci lavorò molto: certe regole possono produrre conseguenze impreviste, ma decisive. In Italia è successo. Poiché nella contabilità europea i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese non contano ai fini di Maastricht, i governi degli ultimi dieci anni li hanno accumulati liberamente. Così la logica delle norme contabili ha creato inavvertitamente un incentivo a prendere per fame le aziende che operano con la Sanità, i Comuni o la Consip: quegli oneri restavano fuori dai numeri pubblicati nelle tabelle della Commissione europea.
È su questo sfondo che il governo in questi ultimi 15 mesi ha condotto con Bruxelles un negoziato di cui l’accordo di questi giorni è solo la punta dell’iceberg. È stata una trattativa passata anche da lunghe telefonate di Mario Monti ad Angela Merkel (nel marzo 2012), oltre che dall’intervento di almeno quattro dei suoi ministri: Fabrizio Barca per la Coesione territoriale, Vittorio Grilli all’Economia, Enzo Moavero Milanesi agli Affari europei e Corrado Passera allo Sviluppo.
Perché l’intesa non si limita alla questione degli arretrati. Come osserva lo stesso Moavero, «è stato un negoziato su più fronti e con vari obiettivi». Oltre a sbloccare i pagamenti, c’era un’altra partita da chiudere: permettere investimenti pubblici produttivi da parte degli Stati per cercare di contrastare gli effetti della recessione. In particolare si puntava a un giudizio positivo nella valutazione del deficit delle spese nazionali in cofinanziamento ai fondi europei. I contatti con Bruxelles, spiega Moavero, partono quasi subito nel 2012. Stava per entrare in vigore la direttiva che vincola i pagamenti a tempi certi. Il pregresso non è coperto, ma Monti e i suoi ministri volevano essere certi che un eventuale sblocco non avrebbe prodotto contraccolpi negativi presso la Commissione e gli altri governi. A Olli Rehn, gli italiani spiegano che si sarebbe trattato di un’operazione una tantum, trasparente e nello spirito della direttiva. Il loro obiettivo non era che quelle spese fossero scomputate: era impossibile. Piuttosto, occorreva che un deficit e un debito più alti non producessero uno strappo politico all’Eurogruppo, l’organo che riunisce i ministri finanziari dell’area euro. Il rischio esisteva: solo per quest’anno l’aumento di debito previsto con il saldo degli arretrati è di circa l’1,3% del Pil (20 miliardi) e quello del deficit di 0,5%. In prospettiva, se portata in fondo, l’operazione può gravare sul debito per il 5% in più.
La posizione di Rehn emerge con il passare dei mesi: via libera al pagamento dei debiti arretrati, ma solo se l’Italia resta sotto al tetto del 3% di deficit, dunque esce dalla procedura aperta anni fa Bruxelles. Una richiesta non necessariamente comprensibile, dato che Spagna e Francia hanno di fatto scelto di ignorare quel vincolo e Olli Rehn a sua volta di fatto ha scelto di non reagire. Perché dunque? Moavero spiega che c’era un aspetto «particolarmente appetibile». Negli ultimi mesi l’Italia ha condotto anche un secondo negoziato parallelo: quello perché in Europa si possano operare più investimenti pubblici per sostenere l’economia, per quei Paesi con un deficit sotto al 3%. Il piano del governo prevede di portare fuori il Paese dalla procedura per deficit eccessivo a Bruxelles, per poter poi usare più fondi nazionali. Solo il cofinanziamento italiano avrebbe infatti sbloccato nuove risorse europee.
Di qui, nota Moavero, la trattativa a doppio binario che ora è alle battute finali: l’obiettivo era lo scongelamento degli arretrati, ma anche del meccanismo legato ai fondi europei. La prossima sfida resta però quella che l’Italia si porta dietro da anni: secondo il Ceps di Bruxelles, che usa dati della Commissione, il tasso di ritorno degli investimenti in Italia è tra i più bassi d’Europa. Una trattativa, questa, che gli italiani dovranno condurre con se stessi.
Federico Fubini