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 2013  aprile 07 Domenica calendario

E IL TIRANNO TIRO’ L’ULTIMA ZAMPATA DOPO LA PUNIZIONE DELLE URNE

Fu la vittoria del pensiero positivo. Fu la vittoria della leggerezza contundente. Fu la vittoria dei girotondi contro i rastrellamenti.
Nella vicenda tragica e brutale delle dittature sudamericane, il plebiscito del 5 ottobre 1988 in Cile fa storia a sé. Nelle intenzioni del generale Augusto Pinochet, il dittatore giunto al potere grazie al putsch del 1973 contro il governo di Salvador Allende, doveva essere la foglia di fico di altri otto anni al vertice, la concessione pseudo-democratica alle pressioni che venivano dalla comunità internazionale e soprattutto dagli Stati Uniti, preoccupati di correggere la fama di grandi protettori di un regime autoritario.
Anche se carico di rischi, il calcolo di Pinochet non era del tutto infondato. Dopo gli anni della repressione più dura, fatta di torture, sparizioni, omicidi degli oppositori, censura, totale assenza di vita democratica, l’azione del regime, pur sempre spietata, era diventata più sofisticata e subdola. Soprattutto, gestita da una squadra di Chicago Boys discepoli di Milton Friedman, la politica economica ultraliberista aveva fatto del Cile la tigre dell’America Latina: conti in ordine, esportazioni in aumento, investimenti stranieri, crescita elevata e benefici per una nuova classe media, che aveva visto in Pinochet un baluardo contro il comunismo.
Era quindi lo scambio scellerato tra benessere e democrazia, sia pure con pesanti costi sociali per i ceti meno abbienti, sul quale contava il dittatore, ormai anziano, per ottenere un nuovo mandato, incurante degli scricchiolii che perfino i suoi più stretti collaboratori avvertivano nella macchina della dittatura. La società cilena stava crescendo e la camicia di un regime segnato anche dalla corruzione le andava sempre più stretta. Inutilmente, nei mesi precedenti, alcuni membri della giunta militare, istigati da Washington, lo avevano pregato di mettersi da parte, per aprire la strada a una successione ordinata ed eventualmente al ristabilimento di una qualche forma di democrazia.
Secondo la trama del plebiscito, ordita dallo stesso Pinochet, in caso di vittoria egli avrebbe governato fino al 1997, lasciando poi l’incarico di presidente a un successore, eletto alla fine del 1996. Se sconfitto, come in effetti avvenne, avrebbe invece dovuto convocare nuove elezioni presidenziali nel dicembre 1989 (dove non si sarebbe potuto ricandidare) e quindi lasciare la guida del Paese all’inizio del 1990, pur conservando la carica di capo delle Forze Armate.
Il colpo di genio dell’opposizione, fin lì divisa e lacerata dalle vecchie, reciproche recriminazioni, fu quello di rovesciare il concetto essenzialmente antidemocratico del plebiscito su un solo uomo, in una opportunità per la democrazia. E di farlo con una campagna elettorale fondata non solo e non tanto sulla memoria del dolore, degli orrori e delle nefandezze commesse da Pinochet, quanto sulla speranza di un futuro nuovo e migliore per il Cile.
Per un mese, il Paese si trasformò in un’immensa Piazza, dove centinaia di migliaia di cileni si davano la mano, cantando, ballando e intonando slogan.
E il resto è Storia. Quello che però, ancora fino a pochi mesi fa, non sapevamo è che Pinochet, appreso il risultato negativo, tentò di giocare un’ultima, disperata carta. Secondo documenti resi pubblici nel febbraio scorso dall’Us National Security Archive, il generale si disse pronto a «far qualsiasi cosa pur di rimanere al potere». Sempre più infuriato man mano che i risultati affluivano alla Moneda, Pinochet convocò uno per uno i membri della giunta, dicendo loro: «Io non lascio, qualunque cosa avvenga». E chiese loro di falsare l’esito della consultazione. Il primo a dirgli di no — così i documenti del Pentagono — fu il capo dell’Aviazione e della Polizia, il generale Fernando Matthei. Solo quando anche gli altri ufficiali interpellati si rifiutarono di assecondare l’ipotesi del broglio, Pinochet si vide costretto ad accettare la sconfitta.
Il 14 dicembre 1989, per la prima volta dopo quasi 20 anni, si tennero nel Paese sudamericano libere elezioni presidenziali e legislative. Nel marzo 1990, il cristiano-democratico Patricio Alwyn divenne il primo presidente del nuovo Cile democratico.
Paolo Valentino