Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 01 Venerdì calendario

Parlano Dolce e Gabbana


[Dolce&Gabbana]

Angeli, arcangeli, angioletti, cherubini, putti, serafini e poi madonne, madonnine e beate vergini e “reginae mundi” d’ogni foggia e natura, di legno e di ceramica, di plastica e di zucchero, ortodosse e mesamericane e rétro e incredibili madonnine Barbie di plastica con l’aggiunta di ceri e icone di Cosma e Damiano e un fischietto di ceramica in forma di Gesù: il Cristo fischiatore.
«Io sono più per gli angeli, Domenico per le madonne», spiega Stefano Gabbana mostrando nello studio milanese di viale Piave che divide con Dolce la sbalorditiva parete che gronda di quadri, icone e statuette sacre: «Anche a me però piacciono le madonne. Sono la mamma. Le mamme sono state importanti, per noi».
«Ma guarda cosa c’è qua! La prima cartolina che mi ha mandato Domenico». La prende, la mostra. Cartolina siciliana. Un teatrino di pupi con due marionette. Orlando e Rinaldo, probabilmente. Perché come dicevano i vecchi pupari «Ollannu e Rinardu sunnu chiddi ca fannu calari a pasta», quelli che fanno buttare la pasta, che danno da mangiare. Sul retro decine e decine di cuoricini e quattro parole: «Ti voglio tanto bene». E il francobollo? «Me la portò a mano. Per San Valentino. L’ho trovata in una vecchia borsa un mese fa. Domenico non la vede da non so quanti anni. Torniamo di là che la mostro anche a lui».
D.: «Ma guarda! È la cartolina che…».
G.: «San Valentino 1983».
D.: «Trent’anni!».
Di quale santo, arcangelo o madonnina sia stata l’augusta protezione (perdonate il miscuglio tra sacro e profano) non si sa. Certo è che l’abbinata più famosa del pianeta, alla vigilia delle “nozze di perla”, ha buoni motivi per essere soddisfatta. Negli anni dal 2007 a oggi, mentre l’Italia moltiplicava per sette volte le ore di cassa integrazione e perdeva sette punti di Pil, la premiata ditta Dolce & Gabbana continuava a crescere di quasi il 6%. E si lanciava su un obiettivo ancora più ambizioso: «Milano e l’Italia sono fortissime sul pret-à-porter, Parigi detiene lo scettro dell’Alta Moda. Siamo stati i primi a organizzare una sfilata fuori calendario di Alta Moda, a Taormina. Vogliamo insistere. Puntando sulla specificità dell’Italia: la bellezza».
Al punto che qualche settimana fa uno studio Pambianco spiegava che l’azienda dei due cinquantenni giovanotti siculo-milanesi, con oltre un miliardo di fatturato l’anno, 3.500 dipendenti, 220 punti vendita monomarca, è oggi la punta di diamante (davanti ad Armani e a Ermenegildo Zegna) di un sistema che vale 50 miliardi, ha una propensione all’export del 55% e contribuisce al saldo commerciale italiano per 18 miliardi.
A farla corta: chi pensa che l’economia si regga solo su stabilimenti e autoclavi, ciminiere e altiforni, non ha capito niente. «Eppure ancora oggi ci sono giornali e telegiornali che non danno notizie sulla moda perché la considerano una cosa effimera. Frivola. Impalpabile», spiega Stefano Gabbana, «non hanno neanche idea di quanta gente lavori grazie alla moda, allo stile italiano, alla fama mondiale di tanti marchi… E non hanno l’umiltà di andare a studiare la cosa e cambiare idea».
Ce l’avete con la politica distratta?
Domenico Dolce: «Manca qualcuno che si interessi. Che studi. Che capisca cos’è il nostro settore. Dobbiamo puntare sulle eccellenze. Sugli artigiani. Sulla manualità. Un patrimonio enorme, tutto nostro, italiano. Che abbiamo buttato via, che stiamo buttando via. Parli di moda e ti guardano come se parlassi di una cosa evanescente, della leggerezza dell’essere… Non capiscono che per esempio il tacco d’una scarpa da donna è un capolavoro d’ingegneria: chi porta quella scarpa deve stare in equilibrio perfetto. Non ha idea di quanti studi ci siano dietro cose come questa alle quali non viene dato peso».
G.: «Non c’è nessuno che difenda queste eccellenze. Nessuno. Divento matto a vedere un marchio storico come Richard Ginori che chiude. Matto. Perché devo comprarmi della roba tedesca se ho la Richard Ginori che ha una tradizione e un nome straordinari?».
D.: «Noi non abbiamo niente contro la Fiat o l’Ilva. Ci mancherebbe. Ma perché tutta l’attenzione deve essere concentrata sulla grande industria? Non sono queste le cose “nostre”. Il nostro è il Paese delle specialità. Della perizia artigianale».
G.: «Dall’estero vengono a imparare qua, dalle nostre sarte, dai nostri calzolai, dai nostri artigiani in genere. Tutti qua vengono. Allora perché l’impressione netta è che di queste cose non si interessi nessuno?».
Forse perché alla Camera ci sono 84 avvocati, 82 dirigenti, 74 imprenditori, 63 giornalisti, 44 docenti universitari, 42 funzionari di partito e giù a calare, ma solo tre artigiani.
G.: «Ecco! Visto?».
Mettiamo che domani vi facciano ministri, che fate?
D.: «Tanto per cominciare, occorre sgravare gli artigiani dal carico fiscale che è davvero eccessivo. E semplificargli le faccende burocratiche. Non puoi caricare su una persona quel peso insopportabile. Quello dell’artigiano non è un lavoro da catena di montaggio così facile da quantificare».
A proposito, l’accusa di evasione fiscale? Un miliardo!
D.: «Dov’è? Dov’è questo miliardo che avremmo evaso? Noi non riusciamo a capire».
G.: «Loro pensano che noi abbiamo valutato la nostra azienda meno di quello che vale per pagare meno tasse. Non è così. Ci sono delle perizie. Comunque la causa è aperta. E vediamo come va a finire. Noi siamo certi di aver agito sempre correttamente».
D.: «Tornando alle cose da fare, il governo dovrebbe aiutare i ragazzi e le ragazze a puntare su se stessi e sul lavoro artigiano. In tutti i settori. Per tornare a un’economia su misura della nostra tradizione. Noi non siamo la Germania. Siamo un’altra cosa. Dobbiamo puntare sul bello. Invece c’è stata una perdita di stile. Di buon gusto...».
G.: «Non succede solo in Italia, si capisce. È una cosa generale. Perché ha successo Lady Gaga? Perché piace. Non dico che bisogna arrendersi a questo andazzo, anzi, ma va registrato».
Non vi piace Lady Gaga?
G.: «No. Ma è lo specchio dei tempi. Bisogna registrare il fatto. Perché piace? Perché ha tanti seguaci? Cosa rappresenta? Uno deve farsela la domanda: come mai ha tanto successo?».
Risposta?
G.: «È l’espressione di un’epoca di decadenza. Anche perché non ha inventato assolutamente niente».
Anche voi siete eccessivi.
D.: «Un momento. Lì non c’è l’eccesso: c’è il travestimento. L’eccesso può essere sinonimo di coraggio. Di eccentricità. Di voglia di esplorare. Il travestimento è una cosa diversa. Vuol dire nascondersi. Non mostrare la faccia. Lei si veste con una identità che non è la sua. Non è la sola, si capisce. Io non frequento Facebook ma seguo e mi informo. C’è gente che si propone con una maschera che non è la sua. Storie inventate. Esistenze ricostruite e false. Ma chi sei? Che bisogno hai di inventarti un’altra vita? Se io sono calvo non è che risolvo tutto mettendo una parrucca. Non avrebbe senso».
Ammetta che una bella smaltata di capelli arancioni alla Berlusconi non le dispiacerebbe, dai…
D.: «Scherza? C’è uno in Grecia che ti ricostruisce i capelli. Dei nostri amici ci sono andati. Funziona. Ogni tanto Stefano, per ridere, me lo dice: vacci. Ma perché dovrei farlo? Mi sento così bene oggi con la mia calvizie! Ci ho messo 54 anni ad abituarmi… Se una mattina dovessi svegliarmi e trovarmi capellone farei un infarto. Ho cominciato a perdere i capelli giovanissimo. Avrò avuto ventitré anni. Appena me ne accorsi, mi rasai».
Non erano tanti, allora…
D.: «Per non vedere lo scempio del riportino, pensai: via tutto. Mio papà era calvo, tutti i miei zii calvi… Come potevo pretendere una bella chioma? In ogni caso, non vedo il problema. Fatti miei. Mica devo risponderne su Facebook o su Twitter».
Non vi piacciono?
D.: «No. È tutto un gossip. Viviamo dentro il gossip. La vita privata delle persone comuni non c’è più. Tutti mettono in piazza tutto».
Lei invece è siculo.
D.: «Sì. Antico. Arcaico. Arcaicissimo. Se litigo con Stefano non sento il bisogno di andare in televisione o di twittare per dirlo. Me la sbrigo da solo. Non abbiamo nessuna voglia di spettacolarizzare la nostra vita. Basta. Più di così cosa dobbiamo fare? Mettere in piazza le nostre budella? Non se ne può più di questa roba. O almeno noi la pensiamo così. E siamo convinti che non siamo i soli».
Quindi lei non esiste su Twitter.
G.: «Io sì ci sono. Su Facebook no, ma su Twitter sì».
D.: «Io no. Non mi interessa».
G.: «C’è uno che lo fa per lui, però. Un certo Domenico Dolce».
D.: «Sarà, ma io non c’entro. Non sono io».
Vuol dire che su Twitter c’è un Mr. Ripley che come nel film di Anthony Minghella si è impossessato della sua identità?
D.: «Può essere. Ma io non c’entro. Non avrei neanche il tempo per giocarci. Non rispondo neanche al telefonino!».
G.: «Ah, sì! Questo mai. Puoi morire prima che ti risponda. Praticamente gli faccio da segretaria. Chiamano tutti me: scusa, Stefano, c’è Domenico?».
D.: «E non sopporto neanche che chi lavora con me lo tenga acceso. Mi toglie concentrazione. I messaggini non ne parliamo. Rispondo dopo due giorni, una settimana, un mese…».
Questa poi! Dolce & Gabbana estranei a Facebook e Twitter…
G.: «Ma no, è chiaro che abbiamo un gruppo che segue Twitter e Facebook e i blog… Oggi, se hai un’azienda come la nostra, non puoi fare senza. Ma l’azienda è una cosa, la vita privata un’altra. Noi siamo un po’ all’antica. Da gettone telefonico. Gli amici li abbiamo già. Non abbiamo bisogno di Facebook per parlare con qualcuno. Su Twitter comunque io ci sono. Da solo. Sono io che rispondo, io che posto le foto…».
D.: «Ogni tanto mi incazzo quando le mette: “Siamo a Parigi!”. Dico: perché devi farlo sapere a tutti?».
G.: «Se sono lì per lavoro…».
D.: «Insomma, se potessi io mi chiamerei fuori».
A proposito: come mai l’hanno chiamata “Domenico Mario Assun”? Ha un nonno arabo?
D.: «Assun? Mai stato Assun».
Lo dice Wikipedia.
D.: «Ma no, è un errore! Nella pagella delle elementari risultavo Domenico Maria Assunta. Poi (non mi chieda perché: non lo so) sono diventato Mario Assunto».
Masculo…
D.: «Poi dal passaporto mi sparì. Adesso è riapparso. Ecco: mi mancava solo “Assun”… Sono un uomo dall’anagrafe in evoluzione… Ma le assicuro che, essendo nato il 13 agosto, antivigilia dell’Assunzione, i miei che sono supercattolici mi hanno battezzato Domenico Maria Assunta».
Trent’anni insieme: come vi conosceste?
G.: «Da un altro stilista, Giorgio Correggiari, morto l’anno scorso. Non era molto famoso. Ma per noi è stato importante. Ci ha insegnato soprattutto cosa “non” fare».
D.: «E poi la libertà creativa. La voglia di sperimentare. L’importanza di imparare dagli errori. Senza errori non cresci».
Il più grave?
D.: «Euh! Una catasta!».
G.: «La prima volta che venne a vedere una nostra sfilata Hebe Dorsey dell’Herald Tribune, una delle più famose giornaliste di moda di tutti i tempi, la lasciammo fuori: “Spiacenti, lei non ha l’invito…”. Figurarsi, non sapevamo neanche cos’era l’Herald Tribune! E così lasciammo fuori l’inviato di Bergdorf Goodman, il più famoso dei magazzini di lusso di New York, sulla Fifth Avenue. Ma chi ti conosce? Fuori! Eravamo degli incoscienti. Bergdorf Goodman, dopo quella volta, non ci ha comprato almeno per dieci anni».
Tornando al vostro incontro…
D.: «Io ero a Milano dal 17 aprile 1979. Ero cresciuto a Polizzi Generosa, sulle Madonie, in provincia di Palermo, dove mio padre Saverio aveva una sartoria che aveva trasformato in una piccola fabbrica d’arredamento. Andava e veniva da Milano. Comprava stoffe, sagome, riviste di moda… Quando tornava giù al paese leggevo le interviste di Versace e Armani e sognavo. Mi venne la fissa di venire a studiare moda a Milano. Era un’ossessione. Mi vedevo già morto, a Polizzi Generosa. Avevo il terrore di restare inghiottito dal paese».
Troppo piccolo?
D.: «Mi ero iscritto ad architettura, a Palermo. Ma volevo solo venire via. Andai alla Sip a consultare gli elenchi telefonici. Per cercare una scuola di moda a Milano. Individuai la “Marangoni”. Un bel giorno, ad aprile, papà mi portò. Mi capiva, mio padre. Volevo fare quello che avrebbe voluto fare lui. Quando vide la “Marangoni” disse: è inutile che giriamo in cerca di altre, questa va bene. Aveva ragione. Era scaltro, papà. Difficile si sbagliasse. Facemmo un giro per Milano, mangiammo qualcosa alla stazione, poi riprese l’aereo».
Un duro?
D.: «No, dolcissimo. Meglio: dolcissimo ma molto, molto determinato».
G.: «Il pezzo da novanta, però, era la mamma di Domenico, Rosaria. Ruotava tutto intorno a lei. Era lei il capobranco. Una donna di estrema intelligenza. Quando aprimmo la prima azienda lei, che aveva sessant’anni e non si era mai mossa da quelle montagne palermitane, prese l’aereo, si trasferì a Busto Arsizio e non tornò mai indietro. Che donna!».
D.: «Si erano sposati quasi “vecchi”, i miei. Papà aveva 38 anni, mamma 30. Erano tutti e due molto indipendenti. Lei era forte, androgina, si faceva fare i vestiti dai sarti per uomo… Si figuri, sulle Madonie! Non si voleva sposare perché non voleva legami. La sua famiglia aveva un bazar di mobili e tessuti… Mio papà, dopo avere lui pure scartato a lungo l’idea di sposarsi, capì che gli conveniva trovare una donna locale, seria e che mia madre poteva andargli bene. Allora si presentò…».
G.: «…e le disse una frase fantastica: “Signorina, accetta l’amore?”».
D.: «Testuale. Così le disse: “Signorina, accetta l’amore?”. Mia madre pensò che fosse un buon partito. Era un bell’uomo, elegante. Tutti e due molto pratici. Decisero di fare insieme business. Mamma diceva sempre: “L’amore non esiste, l’amore viene!”. Eh eh, sembrava cinismo puro… Ma non era così. Avevano un progetto di vita, e allora perché no? Prendeva in giro papà ridendo: “Innamorato di che, cretino?”. Era fatta così. Del resto sa cosa mi rispose quando le dissi che ero gay?».
Cosa?
D.: «Deve sapere che io credo d’essere gay da sempre. Dalle elementari. Solo che, laggiù, al paese, non era facile…».
Quando se ne è accorto?
D.: «Da quando sono nato. Da sempre. Ma facevo la parte del ragazzo normale. Avevo delle fidanzatine. Una volta, a 17 anni, tornai a casa con una delle ultime. Carina. Anzi, non era proprio carina. Diciamo normale. Diciamo bruttina…».
Decida: carina, normale o bruttina?
D.: «Bruttina. Mia mamma mi fece nero: ma come fai a metterti con questa! Fu a Milano che mi resi conto che a me piacevano gli uomini. E solo gli uomini. A un certo punto ho capito che ero un caso irreversibile e così, quando sono tornato a casa a Pasqua, mentre mia mamma lavava i piatti, dopo pranzo, di spalle, le dissi: “Mamma, credo di essere gay”. “Cosa vuol dire gay?”. “Omosessuale”. “Be’, se oggi usa così, non ti preoccupare. Poi magari ti passa”».
In Sicilia, sulle Madonie, la Rosaria non fece una piega?
D.: «Neanche una piega. Noti che io non ero ancora mai stato con un uomo. Neanche un bacio. Neanche un ginocchio sfiorato».
Mai?
D.: «Mai. Senza il consenso di mia madre non avrei mai potuto… Senza la sua benedizione… Ero terrorizzato all’idea. Immagini il batticuore a parlarne la prima volta. C’era anche mia sorella. Mio papà no, se ci fosse stato lui non avrei trovato il coraggio. Con mia mamma parlavo di tutto. Lei mi rassicurò. E mi sentii libero. Un anno e mezzo dopo incontrai Stefano».
E la mamma veneta di Stefano come si regolò, fu aperta come quella siciliana?
G.: «Mica tanto… Anch’io ho avuto un percorso difficile. Ho capito subito che mi piacevano i maschi, a cinque o sei anni, ma prima che mi accettassi… Lo negavo anche con me stesso. Ho avuto tante fidanzatine... Ero piacente».
Quindi le prime esperienze…
G.: «La prima fu traumatica. Il papà di un mio compagno di scuola provò a violentarmi. Facevo le elementari. Quello si era già sbottonato, riuscii a divincolarmi, infilai la porta e scappai a gambe levate. Ricordo ancora l’angoscia mentre premevo il pulsante per aprire la porta. Tornato a casa raccontai tutto a mia mamma».
E lei?
G.: «Mia mamma Piera faceva la portinaia in via Previati 14, zona piazza Amendola, tra parco Sempione e San Siro, e per integrare un po’ i guadagni stirava o andava a mestieri… Famiglia modesta. Mio papà Lino faceva l’operaio alla Rusconi a Sesto San Giovanni. E tirava su un po’ di altri soldi facendo anche il parquettista e l’uomo di fatica. Io stesso ho cominciato a lavorare che avevo sei o sette anni. Andavo con mia mamma a pulire gli uffici… Con due genitori così! Razza Piave. Lei di Ceggia, lui di Cessalto. Lavoravano sempre. Due, tre lavori insieme…».
Tanti italiani non amano raccontare di venire da condizioni modeste… È una cosa un po’ “americana” la fierezza di raccontare di una mamma portiera…
G.: «È un tabù. Non solo degli italiani. Anche dei francesi. Degli spagnoli. Un pudore mediterraneo… Io no. Anzi, me ne vanto».
Tornando al pedofilo…
G.: «Mia mamma forse si sentiva troppo fragile, troppo piccola, per denunciarlo. Lasciò perdere…».
Pesò sulla sua vita?
G.: «Mah… Mi sono sempre sentito abbastanza libero. Sono stato con donne e con uomini, donne e uomini, finché mi sono innamorato di Domenico».
Che quindi non è stato il primo uomo della sua vita…
G.: «Scherza? Il mio primo grande amore fu un compagno di classe. Ero pazzo di lui. Adesso è sposato. Quando i suoi genitori seppero che avevamo consumato ci divisero. Stavamo malissimo. Malissimo. Eravamo abituati a stare sempre insieme. Scuole insieme. Vacanze insieme. A quel punto, per vederci, prendevamo la prima metro alla stazione Amendola-Fiera alle sei e un quarto di mattina per stare dieci minuti insieme fino a Garibaldi. Dieci minuti. E lì finiva la nostra storia d’amore».
E lei quando l’ha detto a sua madre e a suo padre?
G.: «Mai. Credo che lo abbiano sempre saputo, ma non gliel’ho detto mai. Mia madre l’ha saputo dalla televisione. Avevamo dato un’intervista proprio a Sette. A Stefano Jesurum. In cui dicevamo di essere una coppia. Non è che parlassimo di sesso, raccontavamo una storia d’amore. Con parole misurate. Noi non pensavamo di raccontare niente di particolarmente curioso. Men che meno scandaloso».
Fatto sta che la mamma…
G.: «Ero in piazza San Babila. Mi arriva un messaggino sul cellulare: “Guarda che sei nei titoli del Tg5”. Faccio una corsa a casa e faccio in tempo a vedere Enrico Mentana che racconta questa storia dell’intervista e siccome non avevano fotografie nostre (noi non abbiamo mai dato spettacolo, siamo sempre stati piuttosto riservati, non ci siamo mai baciati pubblicamente…) mostrarono una foto scattata dopo una sfilata in cui pareva che fossimo mano nella mano. Mi chiama mio fratello: “Guarda che la mamma ha avuto una crisi isterica”. Dico: perché? Non avevo avvertito nessuno di quest’intervista. Forse per ingenuità. O forse perché non avevo voglia di dirlo a loro, di affrontare il problema… Fatto sta che mia mamma l’aveva saputo dal telegiornale».
Allora?
G.: «Allora l’ho chiamata. Era in lacrime. “E adesso cosa dico ai vicini?”. Le spiego: “Mamma, non sono un ladro, non sono un assassino, non ho brutte malattie e non procuro problemi a nessuno. Al posto di amare una donna amo un uomo: a te che differenza fa? Niente. Allora che problema c’è? Da allora, non ha più detto niente. Anzi, per mostrare che mi è vicina si interessa dei gay pride. Vede quelli con le bretelle rosa e mi dice: “Ma tu non sei così!”. Dico: no, grazie al cielo! Ci sono tanti modi per mostrare la propria omosessualità…».
E voi le tiracche rosa non ve le mettete.

G.: «Io sono uno che gioca molto. Adoro i cartoni animati, posso passare una sera a guardarmi La spada nella roccia, Semola e mago Merlino. Mi piace giocare. E sono pieno di parrucche. D’estate, per gioco, in barca, posso anche mettermene una. Ma per ridere. Poi, certo, è una questione di letture. Se lo fa un eterosessuale gioca, se lo faccio io sono un travestito».
Non vi pesa esser sempre abbinati?
G.: «No. Assolutamente».
Mai pensato di andare ognuno per conto proprio?
G.: «Ce lo siamo urlati tante di quelle volte! Gliel’ho detto: “Domenico, perché non ti fai una collezione tutta tua?”. Ma al massimo questi pensieri duravano due ore. Non ne vale la pena. L’abbiamo costruita insieme, questa cosa. E insieme restiamo. Anche quando la nostra storia d’amore è finita non ci siamo posti il problema».
Mai?
G.: «Mai. Nessuna gelosia. Lui ha il suo compagno, io il mio».
E non sono reciprocamente gelosi della vostra coppia storica, questi vostri compagni?
D.: «No. Non hanno motivo di esserlo. Abbiamo un ottimo rapporto. Facciamo anche le vacanze insieme».
G.: «Domenico si è messo a fare adesso il fotografo per conto suo. Io non c’entro. Che problema c’è? Non ho alcun timore di essere messo in ombra. Se senti Dolce ti viene in mente Gabbana, se dici Gabbana ti viene in mente Dolce. È così».
Le polemiche di questi giorni sul matrimonio gay, le adozioni…
G.: «Io personalmente sono contro il matrimonio in genere, anche tra l’uomo e la donna, si figuri… L’anno prossimo i miei genitori fanno sessant’anni di matrimonio e sono l’esempio che può funzionare ma io…».
Mai pensato di sposarvi?
G.: «No».
Le adozioni?
G.: «Io non mi sento in grado di adottare un bambino… Parlo per me. Poi, se la scelta è fra lasciare un bambino in un orfanotrofio o lasciare che lo crescano due uomini o due donne che si vogliono bene credo che ogni persona di buon senso capisca che è meglio questa seconda soluzione. Certo, occorre fare molta attenzione. Fissare delle regole. Perché ci sono dei malati in giro. Lo capisco benissimo che ci vuole severità. Ma tra l’orfanotrofio e una coppia di persone che si vogliono bene…».
Come nacque, il marchio?
D.: «Io lavoravo già con mio padre. Facevo le collezioni sue. Ma volevo far qualcosa di mio. Lo dissi a Correggiari e lui mi consigliò di chiamarla “Do.nna Do.nna”. Facendo emergere le mie iniziali: Domenico Dolce».
G.: «Questa poi! Sai che non lo sapevo? Mica male, per un profumo: Do.Do. Dovremmo correre a registrare il marchio…».
D.: «Presentavo le mie cose nei posti più assurdi. Un mese prima delle sfilate. Chi mi cagava, sennò? La prima insieme la facemmo al Burghy in Vittorio Emanuele. Gli inviti erano fantastici: una scatoletta di cartone con dentro un panino americano che aveva, al posto della polpetta e della sottiletta, della carta bullonata e dei tessuti in miniatura attaccati con la colla. Purtroppo non avevamo calcolato il fattore tempo».
G.: «Tra una cosa e l’altra gli inviti arrivarono che il pane (pane vero: acqua, lievito e farina) aveva fatto la muffa».
D.: «Una figura! Siccome non avevamo i soldi per le modelle e i modelli, avevamo preso dei manichini e li avevamo messi a sedere coi nostri vestiti ai tavolini così che non capivi sulle prime se erano clienti o manichini. Da matti. Ma era un’idea».
Ce l’avete ancora, quel panino-invito ammuffito?
D.: «Macché. La seconda sfilata la facemmo da un parrucchiere. A mezzanotte. Andavamo matti per Andy Warhol e i colori dei vestiti erano pazzeschi. Cianotici».
G.: «Madonna, che terronata!».
D.: «Finalmente una giornalista, Marina Fausti, si accorse di noi. E alla fine arrivò l’invito per debuttare, come esordienti, alle sfilate in Fiera».
G.: «Dolce & Gabbana non esisteva neanche. Avevamo un ufficetto in Porta Vittoria, vicino al tribunale. E avevamo messo fuori una targhetta di plexiglas coi nostri cognomi. Speravamo che quella sfilata fosse l’inizio di qualcosa di importante. Macché, ce la misero in quel posto».
Cioè?
D.: «Nessuno voleva produrre le nostre cose. Ricordo la Zama Sport di Novara. Ci disse che non interessavamo».
G.: «Adesso son lì che dopo essersi mangiati le unghie, le dita e le mani sono arrivati ai gomiti. Eravamo due ragazzini, ci tenevamo su facendo consulenze. Avevamo messo tutti i nostri soldi in quella sfilata e ci trovavamo col culo per terra. Letteralmente. Domenico aveva una Renault 5 così vecchia che pareva quella dei Flintstones. Col buco sul pavimento».
D.: «Lui non ce l’aveva ancora, la macchina. Gli ho insegnato a guidare io, per la patente. Solo dopo, quando eravamo già ricchi, gli ho regalato una Mg verde bottiglia».
G.: «Era bassissima. Praticamente guidavi col sedere sull’asfalto. Due posti. Mi sentivo un figo pazzesco».
D.: «Insomma, senza una lira e pieni di debiti per due mesi e mezzo andammo a bussare a tutte le porte. Tutte. Dico tutte. Niente da fare. Avevamo un assistente, abbiamo dovuto licenziarla. Avevamo un salvadanaio, il classico maialino, e abbiamo dovuto romperlo. Vivevamo stretti stretti in un monolocale in piazza 5 Giornate, davanti alla Coin. Siamo andati avanti per mesi mangiando focacce del panificio e latte».
G.: «Col senno di poi, bene così. Far la fame ci è servito».
E la svolta quale fu?
D.: «Andammo giù a Natale a Polizzi Generosa e mio fratello e mia sorella dissero: vi produciamo noi».
G.: «Dissero così: “Niente avevamo, niente abbiamo. Tanto vale…”».
D.: «Dopo due anni avevamo tanto di quel lavoro che, trovato un capannone con una villetta attaccata a Busto Arsizio, mia madre e mio fratello vennero su per cominciare a produrre qui. Il tempo di organizzarci un po’ e vennero su anche mio padre, mia sorella e mio cognato. Abbiamo lasciato l’azienda siciliana a una specie di cooperativa di sarte che ancora oggi continuano a lavorare per noi e aprimmo a Legnano…».
Quand’è che vi siete resi conto di avere sfondato?
G.: «Non abbiamo mai avuto un vero e proprio boom. Le bolle poi scoppiano. Noi abbiamo continuato a crescere poco alla volta. Un pezzo oggi, un pezzo domani…».
Ci sarà stato un giorno in cui vi siete resi conto di essere diventati ricchi…
G.: «È stata una marcia progressiva. Per anni tutto quello che guadagnavamo lo abbiamo reinvestito. Abbiamo sempre guardato avanti. Domenico è portato a rischiare di più, io meno. Lavoravamo come pazzi. Il primo sfizio da ricchi è stato il biglietto in prima classe sull’aereo o l’albergo a cinque stelle a New York. Roba da cine-panettoni».
«Welcome, Mr. Gabbana…».
G.: «E chi lo sapeva, l’inglese? L’abbiamo imparato lavorando. Non avevamo neanche i soldi per pagare i venditori. Venivano i clienti e ci capivamo a gesti. Domenico si avventurava: “The dress…”. Poi continuava in italiano e alla fine ci capivamo a gesti: tre, due, cinque! Con le dita. Pareva che giocassimo alla morra».
D.: «Due-cen-to-cin-quan-ta-dol-lars… Lo scrivevamo sui fogli per cercare di capirci».
Scenette da Totò e Peppino…
G.: «Non ci rendevamo neanche conto d’aver davanti i rappresentanti delle più grandi catene americane. Eravamo disorganizzati. Lavoravamo venti ore al giorno… Ma quando c’è la voglia di capirsi…».
La svolta fu Madonna?
G.: «Sì. Lei. Lei ci ha aiutato a diventare quelli che siamo oggi».
D.: «Avevamo i suoi dischi. Eravamo andati a vederla in concerto a Torino e da altre parti. Ci dicevamo: pensa se un giorno si mettesse qualcosa di nostro. Passano tre mesi ed esce sull’Herald Tribune una foto di lei a una festa a Parigi da Jean-Paul Gaultier con addosso una maglia da “teruna”…».
In che senso “da teruna”?
D.: «Una maglia nera tutta a uncinetto, di tradizione meridionale, che era nostra. Da non crederci».
L’avete cercata?
G.: «Ci ha cercato lei. Avevamo a New York una stanzetta, un piccolo ufficio stampa, affidata a un ragazzo vietnamita. La sua assistente si mise in contatto e disse che lei doveva andare alla prima del film A letto con Madonna e voleva un body con tutte le pietre colorate, una giacca da uomo e le calze autoreggenti. Andò a questa presentazione e uscì su tutti i giornali internazionali accanto alla foto di una sfilata nostra. Girò tutto il mondo, quella foto».
D.: «Poi uscì il film e ci chiamò un amico che vive a New York e fa il restauratore al Metropolitan Museum. Ci disse che nel trailer del film, in America, c’era una battuta in cui lei, Madonna, diceva una frase tipo “io nella vita posso avere quello che voglio, volevo una camicia di Dolce & Gabbana e toh, Warren Beatty me l’ha subito regalata…”. Noi non ci credevamo. Pensavamo ci prendesse in giro. Quando il film arrivò a Milano fummo gli ultimi ad andarlo a vedere perché eravamo spaventati all’idea che ci avessero presi per i fondelli».
E invece la battuta c’era…
D.: «C’era. Così, dopo mesi, vedendo che continuava a vestirsi con roba nostra, le abbiamo chiesto se avesse voglia una sera di cenare con noi».
Chi telefonò, Stefano o Domenico?
D.: «Macché, le abbiamo scritto. Meglio: abbiamo dettato una lettera a uno che ce l’ha tradotta. In che lingua potevamo parlare, al telefono? Se ti vedi puoi gesticolare, ma al telefono…».
E finalmente, cena a New York.
G.: «Ristorante sulla 17a, tra la settima e l’ottava. Io ero sudatissimo per l’emozione. Il mio mito! Per fortuna allora si poteva ancora fumare nei locali. Una dietro l’altra...».
D.: «Per cominciare ci fece il questionario di Proust. Voleva sapere tutto di noi. Lei impazzì per noi, noi per lei. Finimmo a ballare, poi a casa sua…».
E come parlavate?
D.: «A gesti».
A gesti?
D.: «A gesti. Ma lei parla un po’ di italiano, per fortuna. Adora il nostro cinema neorealista e si guarda i vecchi film in lingua originale. Visconti, Pasolini, Rossellini… Sa tutto. È una donna straordinaria. Ancora adesso, dopo tanti anni, mi mette soggezione. È una dalla quale impari sempre qualcosa. È scaltra, è colta, dell’Italia sa tutto. È molto italiana. Ma sul business è americana fino al midollo. Ha una determinazione pazzesca. È nata tre giorni dopo di me, nell’agosto 1958, ha venduto 300 milioni di dischi, ha avuto tutto eppure se la vedi provare un balletto con la sua insegnante ascolta e obbedisce e sta in riga come un’alunna disciplinata. Umile. Formidabile».
Com’è, come cliente?
G.: «L’ideale. Decisa. Se vuole una cosa ti dice anche il punto di colore».
E Leo Messi?
G.: «Ragazzo bravissimo. Simpaticissimo. Semplicissimo. Come tutte le persone sicure. Serene. In genere quelli di grande successo sono molto tranquilli, alla mano. Quelli che se la tirano in genere sono quelli che gli stanno intorno…».
Come vi immaginate, vecchi?
G.: «Chissà se ci arriveremo… Ce lo siamo detti tante volte, moriremo sul tavolo di lavoro facendo vestiti. In mezzo ai giovani, però…».
Gian Antonio Stella