Francesco Merlo, la Repubblica 13/1/2011, 13 gennaio 2011
È vero, come ha scritto Le Monde, che rifiutare un premio equivale a prenderlo due volte, ed è sicuro che il Nobel Vargas Llosa guadagna prestigio ogni volta che rifiuta la presidenza dell´Istituto Cervantes, ma solo agli italiani, cittadini di Premiopoli, sembrano matti o sospetti (sotto sotto, come vedremo, per invidia) tutti questi "no", la grande folla dei rifiutatori
È vero, come ha scritto Le Monde, che rifiutare un premio equivale a prenderlo due volte, ed è sicuro che il Nobel Vargas Llosa guadagna prestigio ogni volta che rifiuta la presidenza dell´Istituto Cervantes, ma solo agli italiani, cittadini di Premiopoli, sembrano matti o sospetti (sotto sotto, come vedremo, per invidia) tutti questi "no", la grande folla dei rifiutatori. Ken Loach, per esempio, a Torino ha detto no «perché sono comunista e qui ci sono i precari in lotta». Jurassico? Il matematico russo Grigorij Perelman ha rinunziato al milione di dollari del Clay Mathematics «perché non voglio essere uno scienziato da vetrina e troppi soldi generano violenza». Pazzo? E il genio del fumetto francese Jacques Tardi qualche giorno fa ha respinto quella Legion d´onore che sempre più i piccoli italiani agognano e sempre più i grandi francesi disdegnano. Furbo? Anche la scienziata Annie Thébaud-Mony in agosto aveva detto no a Hollande: «Sfido l´impunità che protegge chi compie crimini industriali». Propaganda? Certo, Jacques Tardi, che non vuole «premi da nessun potere», solo rifiutando è riuscito a rendere più popolare in Europa la sua Parigi a fumetti, che davvero è magica. Parigi è anche la città della ribellione, del "no" come retorica e conformismo. «Jacques, se accetti sei un traditore» lo aveva incalzato il suo collega Philippe Druillet: «Avrei buttato i suoi libri e pensato di ucciderlo. Ma ha reagito come doveva». Come si vede è infantile l´idea del premio che imprigiona, fosse soltanto il proprio narcisismo: «Non riconosco a quel tribunale i titoli per giudicarmi», disse Sartre dell´accademia del Nobel. Il premio ruba l´anima, come la caramella che perciò il bambino non "deve" mai accettare dagli estranei, è il dono come potenza che «ti toglie la libertà» ha detto Lawrence Ferlinghetti rifiutando il prestigioso titolo dello Stato californiano di "Poeta della Patria". Il suo no, a 93 anni, è il coerente documento-monumento alla Beat Generation quando la strada era ancora un mito di libertà, di emancipazione e di vita. Oggi On The Road è la dannazione di un "viaggio vacanze tutto compreso": prima colazione e Nuova Frontiera, 4 buoni pasto e un "no" di Ferlinghetti. Avesse detto sì, lo Stato ci sarebbe rimasto male. Mai il rifiuto danneggia il premio. Anzi, lo ribadisce e lo rafforza come dimostrano quei "no" che, fuori dal tempo e dal luogo, per sempre decorano le coscienze: Marlon Brando non ritirò l´Oscar ma mandò una squaw a leggere una lettera sui diritti (violati) degli indiani; e Cassius Clay nel 1960 buttò nel fiume Ohio la medaglia olimpica e nel 1964 perse il titolo mondiale entrando in carcere: aveva stracciato la cartolina per il Vietnam. Ebbene, sia l´Oscar sia il campionato dei pesi massimi uscirono rinvigoriti dalla passione generosa e perdente dei loro eroi che sono come il capitano Achab «di cui i cani leccarono il sangue». Dimenticati sono invece il "no" di Le Duc Tho al Nobel assegnato a lui e a Kissinger, «come posso prenderlo insieme al distruttore del mio paese?», e tutti i premi restituiti che hanno qualcosa di patetico, sono violenze contro se stessi, e spiace ricordare Pietro Nenni che prima si gloriò del premio Stalin e poi lo rispedì indietro nel ´56, quando la Russia invase l´Ungheria e Stalin era morto. E ci sono anche i «sì, anzi no, anzi sì» come il "vaffa" che lanciò Arbasino alla presentatrice del "Boccaccio", ma poi ci ripensò e forse perché il piccolo premio non merita il grande rifiuto. Deve infatti essere blasonata e prestigiosa l´offerta per farti decidere, con orgoglio scanzonato e smisurato, che il premio non è adatto a te, come accadde a Montanelli che, secondo caso dopo quello di Toscanini, rifiutò il Senato a vita: «Un ergastolo da scontare in un angolo buio». Ci sono rifiuti che sono stati (pietosamente) dimenticati e altri che onorano l´albo d´oro del "no" come dimostra appunto la bisecolare Legion d´onore che espone, più ancora dei "sì", i "no" di Brigitte Bardot, Simone de Beauvoir, Brassens, Camus, Prévert, Maupassant, Léo Ferré... Già nel 1867 era stata rifiutata da Gustave Courbet: «Lo Stato è incompetente in materia d´arte», e nel 1903 fu respinta da Marie Curie che accettò invece due Nobel e morì consumata dalle radiazioni che aveva scoperto e per le quali era stata premiata perché c´è sempre un rapporto stretto tra la malattia e il destino o, se preferite, c´è una ricchezza problematica della malattia: la follia del genio, la sordità di Beethoven… sino all´embolo al cervello dell´intelligentissima Hillary Clinton. Tra i "no" che fanno onore alla Legion d´onore ci sono Bernanos, Ravel e ovviamente Sartre, che rifiutò tutto, persino il Nobel: «Nessun uomo merita di essere consacrato da vivo». Pochi sanno che, molti anni dopo, Sartre, ricco ma squattrinato, chiese all´Accademia il danaro del Nobel rifiutato. D´altra parte anche la squaw di Marlon Brando era in realtà un´attrice. Esiste insomma una storia, una geografia, una retorica e un´aneddotica dei "no" perché la grandezza di un premio è fatta di anti-premio, di uno sprezzante controcanto che si nutre del canto e anche della sua putrefazione, come Festival e Controfestival di Sanremo. E sorprende di trovare tra i no anche un grande italiano, Mario Monicelli, visto che la Legion d´onore decora di vanità soprattutto i petti italiani: giornalisti, imprenditori, editori, architetti… tutti a caccia di esterofilia, che nel paese della premiomania, eredità del fascismo, è una polivalente disciplina di conforto, tra le più autorevoli pur non avendo (ancora) il rango accademico. Ecco perché ci fanno soprattutto invidia tutti questi "no" ed è bene meditare sui 160 premi assegnati al "poeta" Licio Gelli. E i premi hanno nomi che si adattano alle cose che indicano, esiste un vero linguaggio della premialità italiana: il liquore dolciastro da vecchie zie dello Strega; e il Campiello, toponimo veneziano di piazzetta e di cortile, come ottusa mondanità appunto da cortile, con quel Bruno Vespa a cui il premiato Antonio Scurati disse: «Se il mio protagonista dovesse decidere di uccidere qualcuno stasera, sarebbe lei». E si arriva sino all´oltraggio del premio intitolato a Sciascia dato a… Silvio Berlusconi. Nel nome di Giovanni Falcone, Andreotti venne accusato delle peggiori cose di mafia. E però venne poi proclamato "l´uomo del secolo" dalla comunità italo americana e dal giudice della Corte Suprema Antonin Scalia che aveva appena ricevuto il "Giovanni Falcone". Ecco: il nome, illustre e venerato, come il Dio manzoniano l´ha atterrato e quindi l´ha innalzato. Siamo il paese dove ogni anno vengono solennemente consegnati migliaia e migliaia di leoni, gatti, gondole, pistacchi e cannoli d´oro, e le lauree ad honorem non si negano a nessuno, ma uno solo, Fiorello, l´ha rifiutata. Siamo il paese dei titoli a vita, dei doni, dei condoni e dei perdoni, delle presidenze come parcheggio e consolazione, e persino delle leggi ad personam. Come diceva l´ormai abusato Longanesi «in Italia i premi non basta rifiutarli, bisogna non meritarli», ma ci è impossibile non provare una lancinante invidia per questa folla straniera di "no". Qui ci vorrebbe un solo "No" collettivo, con la maiuscola, una sospensione decennale di tutti i premi, come una moratoria nucleare.