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 2011  gennaio 13 Giovedì calendario

Per parlare di Michel de Montaigne, morto nel 1592 a 59 anni, cominciamo a recarci al suo castello, tra Castillon e Bergerac, a una ottantina di chilometri da Bordeaux

Per parlare di Michel de Montaigne, morto nel 1592 a 59 anni, cominciamo a recarci al suo castello, tra Castillon e Bergerac, a una ottantina di chilometri da Bordeaux. Qui si ritirò, dopo aver occupato cariche pubbliche, a scrivere gli Essais. I quali restano una formidabile palestra per lo spirito e trovarono nello scetticismo ben temperato la chiave di una ricerca e le risposte all’esistenza. Dell’antico maniero, colpito dalle fiamme nel XIX secolo, resta la torre. In essa c’è tutto quanto serviva al filosofo: la stanza al piano terreno, ovvero la cappella; un’altra al primo dove dormiva e poi, sovrastante, il suo studio: qui scriveva circondato dai libri. Intorno vigne, viottoli, boschi. I Saggi di Montaigne non ammettono censure nemmeno con i problemi di salute dell’autore. Riportano tutta la verità possibile, senza infingimenti. E restano una delle opere che meglio insegnano ad affrontare, dal punto di vista dell’atteggiamento, disturbi e dolori. Michel è l’esatto contrario del malato immaginario di Molière; si cura ma non si piange addosso, sa ridere al momento giusto dei medici e dei loro sforzi. È convinto che facciano più danni al nostro corpo le opinioni che abbiamo dei mali che non le patologie stesse; infine, non desidera vivere come coloro che hanno sempre bisogno di avere «trois medecins a leur cul». Dopo aver ricordato — siamo nel II libro degli Essais, al capitolo XXXVII — che «la maggior parte delle facoltà della nostra anima, nel modo in cui noi le impieghiamo, turbano le tranquillità della vita più di quanto le giovino», Montaigne descrive direttamente i suoi problemi. «Io sono alle prese — confessa — con la peggiore di tutte le malattie, la più improvvisa, la più dolorosa, la più mortale e la più irrimediabile. Ne ho già provati cinque o sei attacchi lunghissimi e penosi; tuttavia, o io m’inganno, o c’è ancora in questo stato di che sostenersi, per chi ha l’anima libera dal timore della morte e libera dalle minacce, dalle conclusioni e dalle conseguenze con cui la medicina ci stordisce. Ma il dolore stesso non è in realtà tanto crudele, aspro e pungente che un uomo tranquillo debba entrare in agitazione o disperazione». Di cosa si tratta? Quale malanno lo tormentava? Ecco la sua risposta: «Traggo dal mal della pietra almeno questo profitto, che quello che non avevo potuto ancora ottenere su me stesso per conciliarmi o del tutto familiarizzarmi con la morte, esso lo farà; poiché quanto più mi tormenterà e mi affliggerà, tanto meno sarà per me temibile la morte». Da perfetto filosofo, sempre a scuola dagli antichi, rovescia il problema della sofferenza e la trasforma in una sorta di aiuto per affrontare l’estremo appuntamento. Quello che Montaigne chiama, seguendo Ippocrate, «mal della pietra» era una calcolosi, vale a dire dei calcoli renali allora difficilmente operabili se non a rischio della vita. Ne soffriva, per fare un altro esempio illustre, anche Michelangelo, che trasse anch’egli giovamento dall’acqua. Il 15 marzo 1549 il sommo artista lascia una testimonianza dei suoi problemi in una lettera al nipote Leonardo: «Circa il male mio del non poter orinare, io ne sono stato poi molto male, muggiato dì e notte senza dormire e senza riposo nessuno». Nel Viaggio in Italia, Montaigne descrive le cure che tentò, tra l’altro, ai Bagni di Lucca tra il 14 agosto e il 12 settembre 1581. Un suo passo: «Dopo avermi bagnato, resi le orine torbide; e la sera, avendo camminato un buon pezzo per strade alpestre e non speditevoli, le resi affatto sanguinose: e sentii al letto non so che alterazioni ai reni». Il filosofo registra anche i dettagli: il 28 agosto «a l’alba andai a bere alla fontana di Bernabò, e ne bevvi 7 libre, 4 oncie, a 12 oncie la libra»; il 29 «bevvi alla fontana ordinaria 9 bicchieri, i quali capivano una libra l’uno». Il giorno 11 settembre, grazie al cielo, può scrivere: «Buttai la mattina buona quantità d’arenella, e la più parte in forma di miglio, soda, rossa di sopra, di dentro bigia». E tutto questo accade a un animo che crede in pochissime cose, anzi quasi in nulla. Oggi si metterebbe a ridere delle nostre cure preventive e delle continue analisi che pratichiamo per scongiurare futuri malesseri. Ritornando agli Essais — in tal caso siamo nel III libro, al capitolo XIII — si legge: «Le arti che promettono di mantenerci il corpo in salute e l’anima in salute, ci promettono molto; e tuttavia non ce ne sono altre che mantengano meno di esse quello che promettono. Al tempo nostro, quelli che fanno professione di queste arti fra noi ne fanno vedere i risultati meno di chiunque altro. Si può dire di loro, al massimo, che vendono droghe medicinali; ma che siano medici, questo non si può dirlo». Montaigne cerca in sé un equilibrio che non riesce a trovare nei progressi delle scienze. Ridiamogli la parola: «Il mio modo di vivere è uguale nella malattia come nella salute: lo stesso letto, le stesse ore, gli stessi cibi mi giovano, e le stesse bevande. Non vi aggiungo assolutamente nulla, se non la moderazione del più e del meno, secondo la mia forma e il mio appetito. La mia salute, è mantenere senza disturbo il mio stato abituale. Vedo che la malattia me ne allontana da una parte, se do retta ai medici, me ne allontaneranno dall’altra». Le sentenze che fece incidere sulle travi della sua biblioteca, una sessantina circa, riflettono quasi tutte la sua incredulità, il distacco da cose e passioni. Tre vicine, ricavate da Sesto Empirico, il grande medico scettico del II secolo, ricordano: «Io non decido nulla», «Non comprendo», «Sospendo».