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 2012  dicembre 07 Venerdì calendario

AMARCORD SALVARANI

[In pieno boom era il re delle cucine, oggi vive con la pensione minima. E il peso di uno strano crac. Qui lo racconta il figlio. Per riabilitarlo] –
Che , dopo 31 anni, tempi italiani, si è chiusa la procedura per il fallimento della sua azienda, Renzo Salvarani lo ha saputo nella modesta casa del Parmense di proprietà di un figlio dove vive assieme alla moglie con la pensione minima. L’ha presa come può un signore di 86 anni, ritirato da molto e lontano dalle cose del mondo, che ha conosciuto la fame, poi il denaro, tanto denaro, e infine la decadenza accompagnata dai sospetti d’incapacità. Attorno gli sono rimasti pochi amici, i Barilla, il Tanzi dai guai ben peggiori, il Vittorio Adorni che, con lui come sponsor, sfrecciò per primo su molti traguardi del ciclismo. Mentre si è dileguata la pletora di chi gli faceva ala quando fu uno dei protagonisti del boom italiano parlando solo il dialetto della sua terra. Oggi, quando si archivia almeno la vicenda giudiziaria, è l’ultimogenito Giovanni, 53 anni, che con amore filiale vuole riscattare l’unico bene possibile, la memoria di famiglia. E dall’archivio di casa rispolvera documenti per sostenere «la mia verità». Molti dei protagonisti sono morti e lui si rende conto di portare «una ricostruzione di parte». Con la quale restituisce l’onore al padre per puntare l’indice contro i manager imposti dall’Unione parmense degli industriali che all’epoca, siamo a fine anni Settanta, provocarono il tracollo.
Ma prima ancora che una questione di torti e ragioni, questa è una storia esemplare del nostro Novecento. Per raccontarla bisogna risalire al 15 aprile del 1926 quando Renzo nasce, a Golese (Parma), da Gino, un contadino-falegname che nel 1947 parte per l’Argentina e gli lascia sulle spalle sei fratelli minori cui badare. Renzo ha fatto solo la quarta elementare e non ha nemmeno i soldi per comperare il pane. Però ha testa e tanta voglia di lavorare. Si sposa con Antonietta e quando nella Penisola si comincia a distribuire il gas con le bombole lui costruisce, con otto dipendenti, i mobiletti adatti su ognuno dei quali piazza il marchio che finiranno per conoscere tutti, "Salvarani". Il successo è tanto veloce quanto tumultuoso. Nel 1955 il primo edificio industriale di 400 metri quadri, quattro anni dopo le cucine con la curvatura del laminato plastico, i piani unici e gli elettrodomestici da incasso. Più una rete vendite ramificata in tutta Italia. Renzo, coi fratelli, tutti in azienda, pensa ai modelli, li fabbrica, li consegna porta a porta. Ricorderà più avanti: «È sbagliato dire che in quegli anni era tutto semplice perché non c’era nulla e bastava inventare qualcosa per diventare ricchi. Non era così e quell’osservazione è un insulto per giustificare l’incapacità che c’è stata successivamente nell’innovare».
L’espansione della Salvarani sembra non avere limiti. Renzo ha la casa attaccata alla bottega. Come svago solo due salti in balera con la moglie e gli operai. Alle sue cene ci sono i Barilla, il Bubi Bormioli della superpubblicizzata love story con Tamara Baroni, insomma tutta la Parma che conta. E che presto gli starà stretta se nel salotto buono passeranno gli Andreotti e i Craxi ad ossequiare uno dei capitani d’industria entrati nell’immaginario popolare. Giovanni Salvarani all’epoca era un bambino ma ascoltava i discorsi degli adulti: «Papà faceva regali ai politici. Non soldi, regali. Non è che gli piacesse, però capiva che non poteva farne a meno. E li portava a caccia nella tenuta che si era comprato, non perché fosse un appassionato ma perché gli serviva per coltivare amicizie». A caccia ci andava anche con i ciclisti perché col mondo dello sport Renzo aveva contratto uno dei matrimoni più felici a partire dal 1962. Bussò a casa sua Luciano Pezzi, un ex gregario di Fausto Coppi, poi direttore sportivo, che senza tanti giri di parole gli propose: «Ho una squadra rimasta senza sponsor, insieme possiamo fare grandi cose». Salvarani accettò senza nemmeno pensarci. Il suo marchio comparve sul petto di Vittorio Adorni, il campione del mondo di Parma, e soprattutto di Felice Gimondi, il bergamasco che portò con più profitto quel nome e vinse giri d’Italia, il Tour de France. Ancora Giovanni: «Se Gimondi aveva un rivale, questo era Gianni Motta che, a un certo punto si trovò in difficoltà e non aveva dove correre. Si rivolse a mio padre che lo ingaggiò, contro il parere di molti. E fatto così. Se poteva, tendeva una mano a chi ne aveva bisogno». Le telecamere di quella televisione quasi pionieristica inquadravano, sui rettifili d’arrivo, una teoria di pubblicità Salvarani. Renzo salva dal fallimento l’attuale Parma calcio, si lega anche al basket, alla pallavolo, al baseball, collezionando coppe e trofei. Non solo, con la San Pellegrino, nel 1965, è l’unico a comprendere il fenomeno Beatles e finanzia la tappa dei quattro di Liverpool al Vigorelli di Milano.
Dietro la facciata, un’azienda che si espande in modo esponenziale. Fino a toccare, nel 1977, i 2.800 dipendenti in uno stabilimento di 200 mila metri quadrati su un milione e 200 mila metri quadrati di terreno nei pressi dell’Autostrada del Sole. I fratelli Salvarani hanno sfornato 300 brevetti e un loro modello, il "Long line", è stato esposto nel museo di arte moderna di New York. Renzo, nel 1970, è diventato Cavaliere del lavoro a 44 anni. Come molti ricchi dell’epoca ha mandato i tre figli a studiare all’estero per due minacce concomitanti (sequestri di persona e terrorismo) ed ha pubblicamente litigato con Carlo Donat-Cattin a cui ha espresso tutta la sua contrarietà per lo Statuto dei lavoratori. Giovanni commenta: «Mio padre ha sempre addebitato ai sindacati le colpe che hanno portato al dissesto aziendale». Ma nella sua ricostruzione se scioperi, costo del lavoro in aumento e competività in discesa sono solo una robusta spallata, il resto lo fa la scelta di rivolgersi all’Unione degli industriali di Parma che sentenzia: «Gestione troppo familiare, qui ci vogliono i manager». Il declino è ancora più rapido dell’ascesa. Nel 1976 la Salvarani ha ancora i bilanci in sostanziale pareggio. Nel 1977 l’azienda ha un fatturato di 52 miliardi di lire, ma registra perdite per 7 miliardi. Nel 1978 arrivano i "salvatori" che chiedono ai proprietari di ripianare le perdite e di immettere denaro liquido per favorire la ripresa. Giovanni: «Mio padre e i suoi fratelli contribuirono con altri dieci miliardi. Renzo sacrificò tutti i suoi beni personali. La villa, un allevamento di bovini, una fat toria, case, appartamenti, terreni, quadri di Picasso, Guttuso, De Pisis, gioielli, mobili, tappeti antichi, collezioni di oggetti liberty e di Art déco e di maioliche del Cinquecento. Perché ricchi lo eravamo davvero, eh». Non basta.
Nel giro di tre anni tutto è perduto, la Salvarani fallita. Giovanni adombra il sospetto che persone senza scrupoli abbiano mirato allo sfascio per impadronirsi dei terreni vicino all’autostrada e speculare. Gli viene una battuta che parafrasa quella famosa del film western: «Quando un uomo abituato alle regole dell’economia incontra un finanziere, l’uomo legato all’economia è un uomo morto». L’impero si dissolve in un batter di ciglia e così la favola della Salvarani che vinceva tutto, nelle cucine degli italiani come sulle strade delle grandi corse di ciclismo. Resta un figlio che non vuole vedere bollato il padre come un incapace: «Errori naturalmente ne ha commessi ma non tali da ridursi in rovina. E per salvare l’azienda si è spogliato di qualunque cosa». Resta il vecchio Renzo che con la sua pensione minima si rifiuta di commentare anche adesso, dopo 31 anni, e ogni tanto gli scappa detto: «Peccato la vecchiaia, ci sarebbe ancora così tanto lavoro da fare».