Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  novembre 17 Sabato calendario

UNA POLITICA ESTERA DA ORATORIO

[Monti, in particolare, è interessato solo al rapporto con Berlino] –
«La politica estera dell’Italia per il Mediterraneo la fa una organizzazione privata». O meglio, «la detta un ministro, Andrea Riccardi, che è anche il fondatore della Comunità di Sant’Egidio». Questo perché manca una linea di Monti per la regione. Di conseguenza, «abbiamo una politica estera fatta di opere di bene». Il governo dei tecnici non convince Vittorio Emanuele Parsi. Il politologo, che insegna relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, ha nel linguaggio un’asciuttezza machiavellica. E il tono stantio di chi è costretto a fare i conti ogni giorno con equilibri e rapporti di forza. Senza mai indulgere all’idealismo. Parsi è corrosivo nel descrivere il protagonismo crescente di Pechino: «I cinesi trattano pure con Belzebù. Hanno molti soldi e non guardano in faccia a nessuno». Ed è urticante nell’avvertire Washington (e Tel Aviv) sul rimbalzo tecnico di una guerra all’Iran: «Il venir meno di una minaccia iraniana», chiosa, «renderebbe insopportabile agli Arabi la presenza statunitense nel Golfo Persico. Perché, a quel punto, sarebbe vista prevalentemente in funzione di tutela dello stato di Israele». Solo quando parla di Siria, Parsi, desiste dai toni caustici e abbozza una virgola di preoccupazione: «L’opposizione ad Assad non rassicura, alimenta un disegno totalitario». Poi avverte: «Le minoranze si sono riposizionate. Ora c’è un cristiano tra i capi dell’opposizione a Damasco».

Domanda. La Siria brucia. Bashar al-Assad ha detto che vuol «vivere e morire in Siria». Sembra non riesca a concepirsi sconfitto?

Risposta. E’ esattamente così. Ma il problema non è solo nel concepirsi o meno sconfitto. E’ che Assad non ha alternative. E’ al vertice di una compagine di potere molto molto articolata, che da 40 anni sfrutta il Paese e distribuisce a suo favore le risorse della Siria. Se lui perde, questo blocco di potere non ha più nulla. Assad non è un Ben Ali (l’ex dittatore tunisino, ndr) che può scappare con la cassa. In Siria sono decine di migliaia le persone interessate al mantenimento del regime. E, in fondo, il resistere del dittatore siriano finisce per essere funzionale al riallineamento di una parte di quelli che lo sostenevano. Il fatto che oggi uno dei leader dell’opposizione sia un cristiano la dice lunga.

D. Cioè?

R. Nei giorni scorsi gli oppositori al regime hanno preso una decisione in Qatar: hanno nominato un cristiano siriano ai vertici dell’opposizione. Questo è un fatto significativo: vuol dire che le minoranze finora sotto tutela del regime hanno avuto il tempo di riallinearsi

D. Anche Gheddafi e Mubarak hanno opposto strenua resistenza. Il rifiuto di cedere il potere è un refrain dei dittatori. Giovani o vecchi che siano. Perché?

R. Beh, chi è tutto fa fatica ad accettare di non essere più niente. Specie quando vede emergere i rischi di una dittatura della maggioranza in società così composite.

D. In che senso?

R. Se il popolo non è stato niente per lungo tempo, non ci si può stupire che, a un certo punto, voglia essere tutto. Quelli del popolo e del dittatore sono destini incrociati. Entrambi, alla fine, vogliono tutto. O niente.

D. I ribelli non sembrano più rassicuranti di Assad per la democrazia.

R. Non c’è dubbio. Le difficoltà occidentali, le nostre difficoltà a prender partito, derivano da questo. Siamo contrari al regime di Assad e al suo modo brutale di difendersi. Ma gli altri non ci rassicurano. D’altra parte, quando la maggioranza è stata niente per tanto tempo, dopo vuole essere tutto. Quindi alimenta un disegno totalitario. Nella regione, poi, la declinazione politica dell’Islam è la bandiera che oggi garrisce al vento. Chi ha alzato per prima questa bandiera, ora ha enormi mezzi finanziari per sostenerla. E ha acquisito legittimazione politica.

D. A chi si riferisce?

R. Ai Sauditi e al Qatar. Il mondo arabo è stato sempre diviso tra l’anima rivoluzionaria panarabista e l’anima islamista. Ma il volto panarabista oggi non esiste più. E’ tutto islamismo. L’Egitto, che pure era stato un campione del panarabismo, oggi ha un Fratello musulmano al potere, Mohamed Morsi Isa El-Ayyat. Idem la Tunisia, che pure era un paese laico. Dallo stretto di Ormuz, passando per Baghdad, fino al Marocco, la prima repubblica laica che si incontra è l’Algeria. Ed è anche l’unica. Libano a parte, con le sue mille contraddizioni.

D. Cosa cambia ora, con la riconferma di Obama?

R. Beh.. almeno c’è un presidente che è il meno anti arabo nella storia americana recente, dai tempi di Dwight David Eisenhower. Israele oggi sa, che può sempre contare sull’appoggio americano, ma sa anche che c’è un presidente, che non la spinge sulla via della resa dei conti con l’Iran. Quantomeno, la trattiene. Comunque sia, la partita sarà di lungo periodo. Molto più lunga del prossimo quadriennio.

D. A cosa si riferisce?

R. La presenza degli Stati Uniti nel Golfo Persico è accettata in funzione anti iraniana. Ed è mal sopportata per la protezione che gli Usa accordano a Israele. Quindi, il vero dilemma strategico è come tenere a freno l’Iran, senza che la sua scomparsa, come minaccia, renda ingiustificabile, agli occhi degli Arabi, la continuazione della presenza americana. Il venir meno di una minaccia iraniana nel Golfo renderebbe insopportabile agli Arabi la presenza statunitense. Perché, a quel punto, sarebbe vista prevalentemente in funzione di tutela dello stato di Israele.

D. Benjamin Netanyahu, per le elezioni presidenziali Usa, ha tifato per Mitt Romney. Credeva gli desse mano libera con l’Iran?

R. Romney, e chi lo sosteneva, sono sicuramente più anti arabi di Obama. In secondo luogo, i rapporti personali tra Netanyahu e Obama non sono buoni. Ricordiamoci della visita di Netanyahu a Washington, due anni fa. Venne preceduta da una dichiarazione di Obama a sostegno della costituzione di due Stati (Israele e Palestina, ndr) e dall’annuncio di Netanyahu di nuove colonie illegali, a Gerusalemme Est.

D. Nel suo saluto alla riconferma di Obama, il premier britannico David Cameron ha lanciato il suo messaggio: «Risolvere il nodo Iran». Ci sarà la guerra?

R. Difficile che si vada verso la guerra. Un attacco militare non sarebbe risolutivo. E gli americani non hanno alcuna intenzione di mandare truppe di terra in Iran. Di conseguenza, tutti minacciano conflitti, qua e là, ma ... mi pare che una guerra sia da escludere. L’alternativa sarebbe, dunque, quella di avere una leva interna in Iran, su cui poter contare. Ma dov’è questa leva? Attendiamo che scada il mandato del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad. E vediamo cosa viene avanti...

D. Il 22 gennaio prossimo si voterà in Israele per la Knesset (il Parlamento). Poi, il 14 giugno successivo, toccherà agli iraniani votare per scegliere il nuovo Presidente. Prima delle elezioni tutto rimarrà così com’è?

R. Penso di si. E credo che il voto, nell’un caso e nell’altro, sarà condizionato più da questioni economiche che di sicurezza. Specie per Israele, dove è sempre più rilevante il tema dei rapporti con le minoranze, frutto dell’immigrazione ebraica. In particolare, è molto a rischio la laicità dello stato, a causa di una crescita dei partiti religiosi, per effetto dell’immigrazione di ortodossi dall’Est Europa.

D. E come legge l’attacco israeliano a Gaza? Israele ha ritirato l’ambasciatore al Cairo. Lo stesso ha fatto l’Egitto. Il cui Presidente ha annunciato che non chiuderà il confine con Gaza, nel caso di una riedizione dell’operazione Piombo Fuso...

R. Fermo restando il diritto alla sicurezza per tutti coloro che vivono nella regione, Benjamin Netanyahu ha colto l’occasione offerta dai recenti lanci di razzi Qassam su territorio israeliano per spedire, con l’uccisione del capo militare di Hamas, Ahmad Jaabari, un messaggio di tipo propagandistico al proprio elettorato, sulla sua determinazione a garantire la sicurezza nazionale di Israele. Al contempo, il primo ministro israeliano ha recapitato un secondo messaggio agli Stati Uniti, che avevano dato credito al Presidente egiziano, Morsi, e ai suoi negoziati. Con lo scopo di stabilizzare la regione. Infatti, la vera preoccupazione di Tel Aviv è che l’apertura di credito fatta da Washington a Morsi fosse l’anticamera di una successiva apertura degli Stati Uniti a Hamas. Infine, Netanyahu ha radicalizzato ulteriormente il teatro mediorientale, rendendo così ancor più difficoltoso il processo di costituzione di una opposizione elettorale, a lui alternativa, in Israele.

D. In Egitto, il presidente Morsi era stato abilissimo nell’accreditarsi a Washington e Bruxelles. E la sua prima visita, da capo dello stato in Europa, è stata a Roma_

R. Intanto, prendiamo atto che al governo è stato eletto Morsi in elezioni regolari. Ha resistito al braccio di ferro con i militari. Ci piaccia o no, ha ragione lui a comandare. Del resto, non si può trasformare l’Egitto in una gigantesca striscia di Gaza. Quindi vediamo cosa Morsi farà. Il sospetto che ci sia un’agenda nascosta c’è sempre. Il sospetto che dica una cosa e ne faccia un’altra c’è sempre. Credo, che molto dipenderà dall’evoluzione del dibattito interno ai Fratelli musulmani, tra i modernizzatori e i conservatori.

D. Nella sua gerarchia, la prima visita di Morsi è stata in Cina, poi in Iran, quindi in Europa e, da ultimo, a New York, ma solo a margine di un’assemblea Onu. La Casa Bianca ancora non lo ha visto. Cosa significa?

R. Che, reciprocamente, ci sono caute aperture e moderati sospetti.

D. Ma la prima visita che ha fatto è stata a Pechino_

R. I cinesi trattano pure con Belzebù. Di conseguenza, il posto migliore in cui andare è la Cina. Hanno molti soldi e non guardano in faccia a nessuno. L’Iran, poi, è, con Israele, la potenza non araba della regione. La sua visita a Teheran sembra un segnale per Tel Aviv. Un messaggio, che suoni un pò così: «Noi rispettiamo i trattati con Israele e sul canale di Suez, ma rispettiamo anche Teheran. Manteniamo gli accordi presi, ma non abbiamo politiche allineate con Washington e Israele». Sembra una partita a scacchi. Consideriamo che, nell’area, la potenza emergente è l’Arabia Saudita, con cui l’Egitto ha rapporti buoni; ma, storicamente, Riyad è la rivale del Cairo. E se gli egiziani possono permettersi di parlare con Teheran, i Sauditi no di certo. In questo modo, Morsi fa valere la libertà di movimento egiziana, rispetto alla crescita di potenza saudita.

D. Intanto, la Libia è finita nel dimenticatoio_

R. La situazione è instabile, ma non incontrollata. C’è molta preoccupazione sul suo futuro, anche se c’è un nuovo governo. E, con esso, c’è la speranza che la situazione possa migliorare. In Libia c’è un nuovo governo, non ostile all’Occidente, e una società in cui non si capisce fino in fondo cosa stia succedendo. In Siria, invece, c’è un vecchio regime e c’è anche una società la cui evoluzione non è decifrabile. Per questo, in fatto di priorità, la Siria non può che rubare l’attenzione.

D. Esiste un pericolo salafita?

R. Eccome! E’ un pericolo per le società musulmane. Una minaccia per gli arabi, in particolare, e per i musulmani in generale. Soprattutto per le donne. I salafiti sono una minaccia di instabilità permanente per quel mondo. Molto più che una minaccia per noi_

D. Crede alle Primavere arabe?

R. Si. C’è stato un movimento spontaneo di rivolta per una situazione ormai insostenibile. Le rivolte sono state generate da fattori venuti a maturazione, tutti contemporaneamente. Che poi dalla primavera sorgano Stati liberali, beh.., è tutto da vedere. Però, intanto, possono sorgere regimi con un maggiore appoggio popolare.

D. Perché nessuno pone il problema della politica dei due forni Saudita. Che da un lato finanzia l’integralismo wahabita e dall’altro è il miglior alleato di Washinton?

R. Perché è come sempre stato: la fonte di ispirazione dell’autorità al Saud è nel Wahabismo, ma la loro fonte di protezione sono gli Usa. E’ un semplice, reciproco, matrimonio d’interesse. Gli Stati Uniti hanno interesse a controllare il più grosso detentore di risorse petrolifere al mondo. E anche la potenza militare maggiore della regione, dopo l’Iran. Ma, se si toglie il Wahabismo agli al Saud, ecco, il giorno dopo non esiste più la loro legittimità al potere.

D. La crisi ha assicurato un ruolo di primo piano a Berlino. L’Italia, che concorreva con la Germania al seggio nel Consiglio di sicurezza Onu, sembra diventata una provincia dell’impero tedesco.

R. E’ tutta l’Europa ad essere diventata una provincia dell’impero tedesco. Ma si tratta di un impero riluttante, in realtà. Perché i tedeschi sono i primi a sapere che, ogni volta che il loro potere diventa visibile, l’Europa finisce per saltare per aria. I tedeschi hanno paura del potere e, contemporaneamente, hanno paura di perdere il controllo. Anche qui, è questione di equilibri.

D. Anche nel Mediterraneo, il nostro ruolo di potenza regionale sembra appannato, a vantaggio di Francia e Turchia. Parigi in particolare, dopo aver riconosciuto per prima il Consiglio nazionale transitorio libico, ha fatto lo stesso in settimana con l’opposizione siriana.

R. In un momento di instabilità complessiva come quello attuale, anche le risorse militari contano. E sia la Francia, sia la Turchia, hanno uno strumento militare migliore del nostro. C’è poco da fare. Poi, in generale, va detto che il governo tecnico, per definizione, ha ruolo politico in Europa. Fuori dall’Europa, molto meno ...

D. In che senso?

R. Questo governo tecnico consente di avere la carta migliore nelle relazioni con l’Europa e la Germania. Ma, per le altre questioni, ha carte più deboli. Ciò che non è economia o finanza ha molto meno peso. E poi, la politica estera verso il Mediterraneo sembra ormai nelle mani di Andrea Riccardi, il ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione. Una politica estera fatta di opere di bene_

D. Addirittura. E il ministro degli esteri, Giulio Terzi di Santagata, non ha voce in capitolo?

R. Nei governi, la politica estera non la fa il ministro degli esteri. Ma sempre il Primo ministro. In Europa la politica estera italiana la fa Monti. Che decide anche la politica estera italiana verso Usa e Cina. Ma, nei confronti del Mediterraneo, la politica estera di fatto la decide e la attua un ministro, che è anche il fondatore ed ex presidente della Comunità di Sant’Egidio. Con tutte le conseguenze che questa sovrapposizione comporta.

D. La politica estera del Paese in mano a una associazione privata?

R. Quella associazione ha una visione. E’ questo il punto focale! Se il governo non ha una sua linea sulle politiche italiane per il Mediterraneo, è chiaro che un ministro come Riccardi, che è espressione di quel mondo, finisca per applicare la sua visione. A conti fatti, in carenza di una visione del governo supplisce la visione di una associazione privata. Di una parte. Di Sant’Egidio.