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 2012  novembre 17 Sabato calendario

QUANDO PLATINI INVITAVA TUTTI AL RISTORANTE


Di’, ti ricordi com’era? Campionato alla domenica e tutte le partite alla stessa ora, pranzo di famiglia e poi la magia della radio o lo stadio, niente tessere e tornelli ma salamelle e castagne, le maglie dall’l all’ll, ruoli a prova di confusione, due e poi tre giocatori in panchina: ti ricordi com’era?
Sì che ci ricordiamo com’era, 30 o 40 anni fa, e ci piace avvertire alla gola la dolce stretta della nostalgia. Capite: a un certo punto ci si comincia a guardare indietro e tutto ciò che è perduto sembra migliore di quanto in realtà fosse. Più semplice e chiaro. Calcio compreso.
Un calcio come quello che sembra affacciarsi dalle foto che avete visto nel servizio precedente. Calcio alla buona dentro e fuori dal campo, capelli ordinati e istantanee ricordo, tutti per uno e uno per tutti, lotta per la maglia e non per il conto in banca, spirito di squadra e non l’interesse personale.
Ma era davvero così, così diverso, oppure è il rimpianto che ci fa leggere il passato come una favola? E, d’altra parte, nell’epoca dell’individualismo sfrenato e del divismo egocentrico, il concetto di "gruppo" è un appiglio immaginario buono quando si perde o ha ancora un senso?
«Ce l’ha, altro che, ed è importantissimo», risponde JAVIER ZANETTI, capitano dell’Inter. «Essere gruppo significa avere obiettivi comuni e condivisi». Anche nella grande squadra, dove abbondano le personalità ingombranti? «Anche, se alla base c’è il rispetto. Se il gruppo c’è, si vede quando gira male: se tutti remano nella stessa direzione stai sicuro che prima o poi si raggiunge la riva». Ma l’Inter fino a poco tempo fa non era la squadra dei clan, delle divisioni tra italiani e la colonia di argentini? «Invenzioni giornalistiche. Facciamo così: alla nostra prossima grigliata, venite tutti. Vi invito a vedere qual è l’aria che si respira da noi». Il cibo come collante tra compagni di squadra: succedeva anche al Milan negli Anni 50, quando il dottor Gianni Monti beccava i giocatori nella cucina di Milanello alle 3 di notte, seduti intorno al tavolo a divorare panini alla mortadella. «Gli argentini, e qui ne abbiamo tanti, hanno l’abitudine di stare insieme mangiando l’asado, la carne cotta alla brace», conferma ORAZIO RUSSO, ex giocatore e oggi team manager del Catania. «L’integrazione con il nucleo degli italiani? È avvenuta nel segno di un linguaggio universale: la parolaccia. A volte i sudamericani si prendono per il culo nella loro lingua e i nostri ci restano male perché vedono ridere gli altri e non capiscono. Così chiedono, per poterli poi insultare nella loro lingua». Ma non c’è altro che leghi italiani e argentini al Catania? «Il torello prima dell’allenamento. Poche cose come questa favoriscono l’unione. Il torello è gusto della sfida, il piacere di mostrare la propria abilità coi piedi, sfottò: si torna bambini, e i bambini fanno presto a diventare amici».
«Una volta però era più facile», interviene MARCO PACIONE, pure team manager, all’Atalanta, ma soprattutto ex della stessa Atalanta e della Juve. «Era più facile a partire dai numeri: si andava in trasferta in 20-22, compresi allenatore, magazzinieri, massaggiatore e medico, oggi ci si muove in 40. Una volta, al sabato pomeriggio, si andava tutti insieme al cinema. Se poi si giocava contro l’ex squadra di qualcuno, l’interessato prometteva un pranzo o una cena nel caso fossimo riusciti a batterla. Soprattutto, le sere in ritiro si passavano a giocare a carte o a parlare di tutto. Ricordo l’inverno dell’84: era venuta giù così tanta neve a Bergamo, che ci andammo ad allenare sul Garda. Stavamo in una pensione: nelle camere non c’era neanche la tv. Passammo le serate a chiacchierare di calcio, di noi, delle nostre famiglie. Oggi i giocatori parlano meno tra loro. Stanno pure insieme, ma ognuno con le cuffie alle orecchie o un cellulare o un iPhone in mano: sono scollegati dalla realtà e collegati a una virtuale».
«Per evitare che si sfondino di PlayStation li si può mettere in camera con qualche compagno più loquace o invitarli a vedere tutti insieme l’anticipo del sabato sera», fa eco SANDRO MELLI, ex Milan e Parma e anche lui, oggi, dall’altra parte della barricata, come team manager del Parma. «Ma più di tanto non puoi fare: banalmente, come per i nostri figli, la tecnologia è per loro un’attrazione irresistibile».
Tutto è perduto, allora? «Non esageriamo», ribatte CRISTIAN RAIMONDI, trentunenne difensore dell’Atalanta. «Se una piccola come l’Albinoleffe riuscì a passare in pochi anni dalla C2 alla B fu anche per il piacere che noi giocatori avevamo nello stare insieme fuori dal campo. Piuttosto, ho sentito qualche allenatore dire che non è importante essere gruppo fuori, ma squadra in campo». Alla categoria non appartiene certo GIAMPIERO VENTURA , allenatore del Torino, che di giocatori ne ha visti passare tanti e per questo può lanciarsi in una lucidissima analisi: «Il Toro della promozione in A lo scorso anno prova l’esistenza dello spirito di squadra: presi in mano un gruppo in cui lo spogliatoio neanche esisteva. Tutti insieme abbiamo cancellato il pronome "io" sostituendolo col "noi"». Ma il famoso spirito, chi lo costruisce? «È una semina dell’allenatore, con l’aiuto della società». E qual è il primo chicco che va gettato? «Si chiama disponibilità. Ma per convincerli a darti la loro, ai ragazzi devi offrire la tua. Loro capiscono immediatamente se parli tanto per parlare, se sei vero o fasullo. Una volta i giocatori erano più ingenui e manipolabili, oggi sono scafati e diffidenti: partono dal presupposto che tu voglia fregarli. La chiave per accedere alla loro disponibilità consiste nel capire il carattere, i dubbi e le paure di ciascuno. Io prometto le stesse quattro cose che chiedo: serietà, professionalità, correttezza e sincerità. Da queste nasce la reciproca disponibilità». Ma come la mettiamo quando nello spogliatoio ci sono personaggi alla Ibrahimovic, fuoriclasse abituati a seguire una sola legge: la loro? «Ibra è stato allenato da Mou: una personalità forte come la sua, ed è venuta fuori una miscela esplosiva ma vincente».
«I grandi giocatori non sono mai arroganti o in malafede», aggiunge Melli. «Sono i mediocri in campo, ad essere a volte piccoli fuori. A chi sgarra non va dato potere: va punito anche se è un giocatore importante, così sarà chiaro che le regole valgono per tutti».
«E comunque, dove l’individualità è messa al servizio della squadra, si domina il mondo, vedi il Milan di Sacchi», chiude Ventura. «Quando al contrario una squadra è solo una somma di individualità, al massimo vinci il campionato».
A proposito di Milan, FRANCO BARESI è stato capitano di quello sacchiano e di tanti altri. «Nel Milan che ha vinto tutto i più divertenti erano Ancelotti, Tassotti e Massaro: avevano sempre la battuta pronta. Donadoni era più chiuso, come me, sempre concentrato sul lavoro. Era il primo a tirare in allenamento, e veniva preso in giro per questo». Allora come oggi si dice che il Milan sia una famiglia: che vuol dire? «Vuol dire senso di appartenenza, alla maglia e al club. Alla base ci sono professionalità, rispetto e educazione. In una parola, cultura».
«Pensare che, a forza di curare il gruppo e non l’individuo, si rischia di mortificare il talento del singolo, è una delle più grosse cavolate nella storia del calcio», rincara GIAN PIERO GASPERINI, allenatore del Palermo. «Il rischio è esattamente l’opposto: il bravo allenatore deve sempre evitare che la dipendenza dal singolo impedisca alla squadra di rendere al meglio. In ogni caso, solo con regole ben definite e accettate da tutti è possibile costruire un buon gruppo».
«E il gruppo fa la differenza», conferma STEFANO MORRONE, capitano del Parma. «Da noi si guarda prima l’uomo e poi il giocatore: è tanto più importante oggi, che il calciatore è spesso etichettato come un mezzo scemo interessato solo a macchine veloci e veline». Ma è vero che oggi i giovani si sentono arrivati dopo due partite in A, diventando strafottenti e indisciplinati? «È vero che sono diversi. Io a 20 anni stavo zitto, guardavo, ascoltavo e imparavo. Oggi non è così, ma, se devo consigliare a uno di allenarsi meglio o di più, non mi faccio problemi. Senza urlare però, perché non serve a niente».
«Alla Juve ho giocato con Platini, Scirea, Cabrini: con noi giovani erano straordinari», riprende Pacione. «Platini ci invitava al ristorante insieme agli scapoli». Rimane la madre di tutte le domande: lo spirito di gruppo serve per vincere? «La piccola deve puntare sull’aggregazione fra i suoi componenti, la grande squadra vince anche senza un rapporto cameratesco», risponde Melli. Alla Lazio di Maestrelli, scudettata nel ’74, si andava oltre: i giocatori si odiavano e le partitelle si trasformavano in una caccia all’uomo. «Oggi sarebbe quasi impossibile vincere in queste condizioni», dice Ventura. «Maestrelli era un papà che metteva a posto le cose. Ora i giocatori sono difesi dal procuratore. Che, se il suo protetto non gioca, spara a zero su twitter».