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 2012  novembre 17 Sabato calendario

DALLA GUERRA ALLA NBA


[Bernard James]

Soldato, lei è troppo alto per stare a guardare, prenda quella palla e tiri!». ll security officer del 9° Squadrone dello United States Air Force Bernard James da Savannah in Georgia, profondo Sud americano, in forza a Camp Bucca, in Iraq, all’ordine così perentorio urlato da un suo superiore sapeva di non poter disobbedire. E ha fatto benissimo! Adesso, infatti, a 27 anni di età e a 4 da quella pericolosissima missione di guerra, al posto della divisa color cachi dell’aviazione indossa l’uniforme azzurra della squadra professionistica dei Dallas Mavericks. E anziché stoppare le fughe dei prigionieri e guardarsi dagli attentati dinamitardi, deve difendere contro Dwight Howard e le "bombe" da tre punti di Kobe Bryant. «Prima non avevo mai toccato un pallone, entrai nella squadra del campo base ci racconta Bernard -, e di lì a poco nella selezione dell’esercito. Poi mi volle la Florida State University. E adesso Dallas, campione Nba due stagioni fa: sembra una favola. Invece è tutto vero».
Nel corso di sei anni da militare ha partecipato a importantissime missioni in Kuwait, Qatar, e soprattutto in Iraq. Ha mai ucciso un uomo?
«A questa domanda non posso né voglio rispondere».
Può dirci almeno se si è mai trovato in situazioni di estremo pericolo?
«Quando mi trovavo in Iraq, la nostra base è stata oggetto di un attacco in cui sei detenuti sono stati uccisi e una settantina è rimasta ferita. Abbiamo impiegato sette ore per riprendere il controllo della situazione...».
Conviveva ogni giorno con la paura di morire?
«Mi alzavo alle cinque del mattino e avevo tantissime cose da fare: contare i duemila prigionieri, provvedere al loro nutrimento, fare la guardia, quindi c’era poco tempo per pensare. Gli assalti dall’esterno o le ribellioni interne spesso ci costringevano a usare spray al peperoncino, granate...».
Ha mai stretto un rapporto quanto meno di conversazione con un detenuto?
«Era vietato dalle regole, eravamo in guerra».
Il basket che praticavate nel vostro "camp" non avrebbe potuto essere un mezzo per avvicinarvi?
«I prigionieri avevano il loro campo in cui giocare, alcuni non erano nemmeno male, ma giocare insieme era escluso. Adesso penso che sarebbe molto bello essere convocato nella nazionale americana per disputare un’amichevole con una rappresentativa irachena».
Non ha mai nostalgia di quel campetto nel deserto, povero, modesto, ma sicuramente più "caldo" dei parquet super professionistici della Nba?
«No, era spazzato dalle tempeste di sabbia, sempre rovente per il calore del sole che picchiava come un fabbro sulle nostre teste. Ho nostalgia solo per i miei amici militari che sono ancora là».
E quel sergente che la "obbligò" a giocare a basket come ha reagito alla notizia del suo ottimo debutto contro Utah?
«È orgoglioso di me. Sostiene di non avere mai avuto dubbi sul mio destino agonistico».
È davvero così difficile il ritorno alla vita normale dopo una missione in Iraq?
«lo ho amato il periodo trascorso nello United States Air Force, mi ha formato come uomo. Ricordo che nei primi allenamenti alla Florida State University chiesi al coach di urlare perché ero abituato così, ma piano piano tutto è passato».
Lei era altissimo, 208 cm col 50 di piede, già a 16 anni: come è possibile che non abbia mai voluto giocare a basket o che al Windsor Forest High School di Savannah non glielo abbiano mai chiesto?
«Tutti i miei quattro fratelli praticavano il basket, io volevo distinguermi da loro. E poi ero magrissimo, scoordinato e dinoccolato. Così mi appassionai di estreme game, la disciplina che unisce skate boarding, roller blading, street luge, mountain bike. Sino a 17 anni nell’esercito non ho mai tirato un pallone verso il canestro».
E che avrebbe fatto nella vita se questa favola non si fosse compiuta?
«Il militare, e poi avrei aperto un ristorante messicano a Savannah. È un’idea alla quale non ho rinunciato del tutto. Potrebbe essere un buon business. A me piace cucinare, sono un mago a inventare ricette col sugo di pomodoro».
Dovrebbe fare un periodo di training in una cucina italiana...
«In Italia sono stato solo per due ore nella base di Aviano, che funge da ponte per le missioni in Iraq. Però, sì, mi piacerebbe diventare, alla fine della carriera nella Nba, uno chef. Del resto la mia storia di vita insegna proprio questo: "Ehy man, non è mai troppo tardi per realizzare i tuoi sogni, non lasciare mai che qualcuno ti dica che sei troppo vecchio per farcela"».
Lei che ha dovuto combattere ogni giorno per salvare la pelle non avrà avuto alcun timore di non essere all’altezza degli altri giocatori della Nba, ad esempio l’altro James, il campionissimo LeBron dei Miami Heat...
«Diventerò il miglior difensore della Nba. Impazzisco di fatica negli allenamenti, sono molto competitivo con me stesso. Ho rispetto per gli avversari ma paura no. Ho saltato la prima gara contro i Lakers, ma con Utah in 15’ ho realizzato 8 punti e 6 rimbalzi... Quando capisci che nella Nba bisogna essere in tutti i sensi un po’ smuggler (contrabbandiere; ndr), allora diventa tutto più semplice».
Intanto ha già firmato un contratto molto buono. Che effetto fanno tanti soldi per un ragazzo abituato alla vita da caserma?
«Di sicuro non mi compro un hummer! Aiuto la mia famiglia, preparo un futuro per il figlio che avremo io e la mia ragazza, e voglio sostenere le istituzioni che si occupano dei reduci dalle missioni di guerra in difficoltà».
La sua storia merita di essere raccontata in un libro e anche in un film...
«Lo scriverò presto, a me del resto piace molto leggere, specialmente i thriller di Dan Brown. Hollywood vuole che partecipi alla stesura della sceneggiatura. Nel mio ruolo vedrei bene Will Smith».
La verità: gli orrori della guerra si possono dimenticare?
«Non si dimentica nulla. Ma si impara col tempo a ricordare solo i momenti belli. E questo vale sempre nella vita».
Quale sogno le resta adesso da realizzare?
«Un match con Barack Obama. Ho giocato con il suo vice Biden quando venne alla Florida State University, ma confesso che non se la cavava benissimo».