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 2012  novembre 17 Sabato calendario

Ci sono città che ti accolgono, dove ti sembra che tutto sia possibile, in cui ti senti a casa. Parigi è una seconda casa per Laura Morante, un luogo dove tornare e ritrovarsi

Ci sono città che ti accolgono, dove ti sembra che tutto sia possibile, in cui ti senti a casa. Parigi è una seconda casa per Laura Morante, un luogo dove tornare e ritrovarsi. Ma Laura, l’italiennedi Francia, non è fra quelli che quando sono all’estero parlano male dell’Italia: «Sono italiana e felice di esserlo. In alcune occasioni ti vergogni un po’ perché all’estero, a cominciare dagli scandali della politica, certe cose non succedono. La Francia è la mia seconda patria, ma per essere felice ci vuole equilibrio: quando vivi fuori dal tuo Paese vedi con lucidità i difetti e tendi a enfatizzare le virtù degli altri. Ma i difetti, quando impari a conoscere bene una nazione, lo possiamo dire, no?, sono da tutte le parti». Ride come un’adolescente. Se le case raccontano qualcosa di chi le abita, quella della Morante, piena di giochi, libri, dvd, due cani, un gattone, racconta una persona vitale, curiosa, che bada alla sostanza delle cose. Due figlie grandi, Eugenia e Agnese, il piccolo Stepen, adottato in Russia («Ho nove fratelli, mi piacciono le famiglie numerose»), partita da Santa Fiora, vicino a Grosseto, l’attrice ha cominciato a scoprire il mondo per lavoro. «Ho iniziato casualmente a fare l’attrice con il cinema d’autore, i film andavano presentati ai festival e io andavo molto all’estero. Quando, col mio primo marito, Georges, ci siamo trasferiti a Parigi, mi è sembrato naturale. Veramente prima abbiamo provato a vivere in Italia… Per lui che non era abituato a tanta burocrazia, è stato uno shock. Ricordo l’espressione stupefatta quando andò in un ufficio, alla fine degli anni 80, per chiedere un documento. Lo tennero non so quanto tempo allo sportello. Fulminò l’impiegata: “Signorina, nel mio Paese ci vuole mezz’ora, bisognerà che prima o poi vi allineiate con l’Europa”». Così la ragazza cresciuta in provincia, attrice per caso dopo il debutto come danzatrice con Carmelo Bene («quanto mi maltrattava, ma più mi maltrattava più resistevo»), fa le valigie. «Sono rimasta a Parigi dieci anni, sono partita per amore. Città bellissima. Poi sono cominciati i problemi, in fondo sono meridionale, avevo qualche problema col clima, il matrimonio è finito e sono tornata in Italia con la gioia di ritrovare il mio Paese. Perché anche quando abiti all’estero non smetti di pensarci, ti vergogni di quello che succede, ti continua a dispiacere. Non è che se lasci l’Italia non ti riguarda più, è un po’ come avere l’anima divisa in due». Per trovare l’equilibrio bisogna essere aperti. «Quando abitavo a Parigi, e quando ci torno, ritrovo le stesse differenze caratteriali con i francesi. Anche se non mi piace generalizzare». Proviamo a capire le principali. «Sicuramente abbiamo un differente senso dell’umorismo e del pudore, è diverso il comporta- mento. Ecco, reagiamo in modo opposto. Giravo Molière con Fabrice Luchini — per me straniera, impegno difficile — e dovevo dire una battuta. M’impuntavo, non ci riuscivo. A un certo punto sono scoppiata a piangere e in tre secondi si è svuotato il set. Sono rimasta lì da sola. Poi mi hanno spiegato che era un gesto di cortesia, presumevano che mi sentissi imbarazzata e per non peggiorare le cose erano scomparsi tutti. Io mi sono sentita perduta. Gli italiani avrebbero dimostrato la loro gentilezza venendo ad abbracciarmi, rincuorandomi». Scuote la testa. «Ecco, i francesi hanno un problema con l’espressione dei sentimenti, un’emozione autentica crea imbarazzo e fastidio, devi imparare a misurare le reazioni e non è semplicissimo per noi, abituati a tirar fuori tutto». Eppure a Parigi ritorna, a Parigi ha girato il suo primo film da regista, Ciliegine, in cui ha riunito gli uomini più importanti della sua vita. Con Daniele Costantini, il padre della primogenita Eugenia (anche lei attrice), ha scritto la storia. Georges Claisse, il padre francese di Agnese, ha recitato nel film. Francesco Giammatteo, l’attuale marito, architetto, ha fatto il produttore con la Morante, affiancando con il 20 per cento la produzione francese. «Ho capito che avrei potuto girare solo in Francia», dice sorridendo, «poi sa, continuando col gioco delle differenze, a Parigi ci sono un sacco di donne che vanno al cinema da sole, in Italia no. E vogliamo parlare di cos’è successo da noi negli ultimi vent’anni con lo sfruttamento dell’immagine della donna? Siamo tornati indietro di secoli, meno male che le giovani e le meno giovani si sono ritrovate. C’è un nuovo femminismo». Padre avvocato, antifascista, fratello di Elsa Morante, Laura si descrive, ragazza, come «un’adolescente timidissima al punto che mia madre si preoccupava. Una volta mi convocò: voleva capire se fossi malata. Le mie figlie hanno talento artistico ma sono diverse da me», racconta, «hanno fatto una sintesi di culture diverse, hanno viaggiato molto, si sono divertite, hanno frequentato le scuole all’estero, abbiamo fatto una vita zingaresca. Come madre sono koala, ma mi piace che siano indipendenti, cerco di tenere a bada l’ansia. Sono andata via di casa a 17 anni, noi eravamo molti figli, i miei quasi non se ne accorgevano se mancava qualcuno, sono cresciuta in una casa senza regole, specie quando mio padre non c’era. Ma tutto sommato è stata un’adolescenza solitaria ma bella». Tutti — da Bertolucci ad Amelio, da Nanni Moretti ai registi francesi con cui ha lavorato — hanno provato a cogliere il segreto di una donna solare e riservata allo stesso tempo, che a 55 anni ha un fascino particolare. «Mi ritengo fortunata, anche se qualche volta non sono stata in grado di coglierla, la fortuna. I miei genitori erano molto diversi, mamma aveva una filosofia di vita tutta sua, ad esempio diceva che bisognava premiare chi veniva bocciato perché un vincitore ha già una sua gratificazione». Lei che fa l’attrice avrà un rapporto forte con l’immagine. «È bello ricevere complimenti, ma non è tutto. Il punto è che le donne continuano a credere che la felicità dipenda dall’essere desiderabili. Per me le persone belle sono quelle concentrate sulla vita, sugli altri e non su se stesse, e che sanno suscitare emozione». Le emozioni lei le porta con sé sul set o a teatro; debutta il 27 novembre all’Eliseo di Roma con The country del drammaturgo inglese Martin Crimp, con la regia di Roberto Andò; in scena Gigio Alberti e Stefania Ugomari Di Blas. È nata artisticamente in teatro: continua a provare la stessa paura? «Il teatro è una sfida con se stessi, tutte le volte, a qualsiasi età. Ho iniziato con Carmelo Bene, ero una danzatrice prestata dalla mia compagnia per il suo spettacolo. Una sera pur di non farmi andare via mi ha rinchiuso dentro il teatro. Lui si divertiva a torturare le persone, io mi ero imposta di fingere disinvoltura per non dargli soddisfazione. Carmelo era un genio ma ti massacrava. Mi licenziava in tronco e mi riassumeva, ho conservato tutti i telegrammi. Ma con lui ho imparato tanto, la prima lezione nella vita è sopravvivere».