Antonio Rossitto, Panorama 11/10/2012, 11 ottobre 2012
DEVASTÒ GENOVA CON I NO GLOBAL. «LA MIA CONDANNA ARRIVA SOLTANTO ORA. MA IO SONO UN’ALTRA PERSONA»
In Italia ci sono storie che non finiscono mai. Il G8 di Genova è una delle più narrate. Era il 20 luglio del 2001 quando la contestazione al summit dei grandi della Terra finì in tragedia. Eppure solo una settimana fa, il 3 ottobre 2012, la Cassazione ha depositato le motivazioni alla condanna degli allora vertici della polizia per falso ideologico: l’irruzione nella scuola Diaz, dove dormivano molti no global, fu «un puro esercizio di violenza», caratterizzato da «un massacro ingiustificabile da parte degli operatori della polizia».
Il capitolo dei torti dello Stato è stato dunque chiuso, seppure con esasperante lentezza. Ne resta aperto un altro: quello che vede a giudizio l’«antistato». Tre mesi fa, un’altra decisione della Cassazione ha sancito: cinque manifestanti sono colpevoli in via definitiva delle devastazioni e dei saccheggi di quei torridi giorni genovesi, con pene che vanno dai 6 anni e 6 mesi ai 15 anni.
Per cinque di loro, però, va ricelebrato il processo d’appello: bisogna valutare nuovamente la possibilità di godere delle attenuanti generiche. Una decisione che segnerà una linea di demarcazione netta: carcere o arresti domiciliari. E comunque: intanto si ritorna indietro, senza passare dal via.
Undici anni dopo il G8, Antonino Valguarnera, 31 anni, arriva all’appuntamento fissato con Panorama davanti a un benzinaio di Mondello, zona balneare di Palermo, con 5 minuti di ritardo. Parcheggia la sua utilitaria malconcia e sorride: ha la barba incolta, veste casual ma di buona fattura, stringe due cellulari nella mano destra. Valguarnera è uno di quei cinque giottini che ancora aspetta la giustizia decorrere. Otto anni di carcere gli pendono sulla testa dal giorno della condanna di primo grado: il 14 aprile 2007. Intanto Valguarnera, tra quel giorno di luglio del 2001 e il suo incerto futuro, ha infilato mesi come volontario dell’esercito in Bosnia, una laurea in scienze politiche, il volontariato, la politica con il Pd. «Ho cercato di fare tante cose forse tentando inconsciamente un riscatto» spiega. «I magistrati prima o poi mi condanneranno. Ma condanneranno un’altra persona».
Oggi Valguarnera lavora come consulente pubblicitario ed è presidente di un’associazione culturale, Punta comune, che organizza eventi d’arte. Nel 2001 era al primo anno d’università, con una solida famiglia medioborghese a sostenerlo. «Avevo 20 anni appena compiuti e tante belle idee in testa, volevo cambiare il mondo. Da mesi seguivo il dibattito in rete sul G8. Così alla fine mi decisi e comprai il biglietto per Genova in un centro sociale».
Sulla politica aveva idee confuse: «Mi sentivo vicino a Rifondazione comunista, però non ho mai avuto tessere di partito. Ero nella fase della contestazione. E volevo dire la mia. A Genova avrei trovato altre migliaia di persone che la pensavano come me sulla globalizzazione. Tema che sentivo molto, tanto che poi c’ho scritto la tesi di laurea».
Benché ottobre sia già cominciato, a Mondello c’è gente che fa ancora il bagno. Il mare, finita la ressa estiva, è limpido e piatto. «Qui sono nato e cresciuto, è il mio posto, questa è la mia gente» dice Valguarnera, interrompendo un attimo il racconto. Sul treno che in quell’estate di 11 anni fa corre verso la Liguria, spiega riprendendo il filo, incontra per caso Carlo Arculeo, amico di suo fratello. Diventerà il suo compagno di scorribande e sventure: anche lui sarà condannato a 8 anni. Nessuno dei due, assicura Valguarnera, aveva intenzioni bellicose. «Mi ero portato dietro un casco, ma solo perché i media avevano anticipato che la cosa poteva degenerare. Però non volevamo fare casini, davvero».
Il 19 luglio 2001, giovedì mattina, i due partecipano al corteo degli emigranti. «Uno dei momenti più belli della mia vita: il clima era gioioso e pacifico. Quello che è successo il giorno dopo ancora non me lo spiego. Tutti si preparavano agli scontri, c’era molta tensione. Arrivati in città, attorno alle 11 cominciano i disordini. E lì facciamo la cazzata: dopo la prima carica della polizia, decidiamo di scappare e rubiamo un motorino. Ma era solo un modo per muoverci meglio».
La Corte d’appello di Genova, nelle motivazioni alla condanna pubblicate il 23 dicembre 2009, attesta volontà diverse: «I due non sono certo mossi da intenti pacifisti, visto che Arculeo risulta travisato (cioè camuffato, ndr) da una kefiah e ha con sé un coltello a serramanico. Valguarnera indossa invece un giubbotto antiproiettile, cinge in vita una catena e ha in mano un manganello». L’imputato commenta: «A Genova l’unico nostro reato è stato rubare un motorino. Lo so, non ci hanno creduto, sostengono che abbiamo partecipato alla vedetta dei black bloc, aizzare gli scontri per scappare subito dopo. La verità è che anche noi avevamo paura di loro».
I magistrati, invece, li accusano pure di avere saccheggiato un supermercato. E citano una ripresa video in cui Valguarnera ha in «mano dei sassi di forma piatta, quindi provenienti dalla pavimentazione stradale divelta, pronti per essere lanciati contro le forze dell’ordine». Lui non ricorda con piacere quei momenti. Sembra che molti particolari siano stati sbiaditi dalla salsedine di Mondello. Dà un’altra occhiata al mare e prosegue: «Lo stesso pomeriggio del 20 luglio 2001 cinque carabinieri ci bloccano sulla vespa. E ci riempiono di manganellate». I magistrati ricostruiscono: «I due cercavano di divincolarsi e scappare; in particolare Valguarnera diede intenzionalmente un calcio all’ispettore Sancineto lesionandogli il ginocchio».
I due amici palermitani finiscono nella caserma di Bolzaneto, dove, accerterà un altro processo, subiscono violenze: «Ci facevano gridare “viva il Duce”, “viva la polizia penitenziaria”, “sei un comunista”…». Poi vengono trasferiti per due giorni nel carcere di Alessandria. Tornano a casa e un mese dopo, il 20 agosto 2001, Valguarnera parte per il militare, come volontario in ferma annuale. «Volevo imparare qualcosa, la disciplina e il rigore. All’esercito ho dato l’anima, tanto da essere scelto per una missione in Bosnia. Sono stato perfino premiato dell’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi».
Da soldato dice di avere imparato a obbedire: «Gli anarchici, dopo la prima sentenza, hanno detto che non si riconoscevano nello Stato che li condannava. Per me vale il contrario: io credo nella legge e la voglio osservare». Gli scontri con la polizia non hanno intaccato il suo rispetto nell’autorità: «Non ce l’ho con i poliziotti che ci pestavano: la situazione è degenerata per tutti».
Quattro mesi dopo avere smesso la divisa, nel novembre 2003, arriva invece il rinvio a giudizio «per devastazione e saccheggio». E comincia l’odissea giudiziaria: i processi, la paura, le condanne. «Mentre ero imputato studiavo diritto penale. Leggevo che la Costituzione non prevede pene esemplari. Eppure la mia, in qualche misura, lo è».
Lo chiamano al cellulare: c’è da organizzare una mostra, lui è in ritardo. «Da 11 anni porto un pesantissimo zaino sulle spalle ». Forse per espiare, si è dato da fare. In primavera si è anche candidato con il Pd alle elezioni comunali. Quasi 250 voti: primo dei non eletti. Valguarnera ci riproverà, condanna permettendo. «La spada continua a pendere sulla mia testa: non so ancora se finirò in carcere. Paradossalmente, se avessi patteggiato, avrei scontato in parte la condanna e ora guarderei il futuro con maggiore serenità».
L’uomo torna verso la sua malconcia utilitaria. Si volta prima di salire in auto: «Questa storia ha già condizionato la parte più importante della mia vita, vorrei che finisse prima di trasformarsi in ossessione. Una cazzata a vent’anni si deve pagare tutta la vita?».
(twitter @AntonioRossitto)