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 2012  ottobre 10 Mercoledì calendario

L’ARTE DELLA NARRAZIONE


[introduzione]
Studio di Georges Simenon nella sua tortuosa casa bianca ai margini di Lakeville, nel Connecticut, dopo pranzo. Un’assolata giornata di gennaio. La stanza rispecchia le caratteristiche del proprietario: allegria, efficienza, ospitalità, controllo. Contro le pareti ci sono libri di legge e medicina, due campi in cui è diventato un esperto; gli elenchi telefonici di diverse parti del mondo che consulta per dare i nomi ai personaggi; la piantina di una città in cui ha da poco ambientato il suo quarantanovesimo romanzo di Maigret; e un calendario sul quale con una matita ha spesso segnato una croce su ogni giorno passato a scrivere il romanzo di Maigret un giorno a capitolo e i tre passati a fare la revisione, una fatica che ha generosamente interrotto per questa intervista. Nell’ufficio adiacente, dopo aver verificato che sia stato organizzato tutto nel migliore dei modi per suo marito e il suo intervistatore, Madame Simenon torna a occuparsi degli affari di uno scrittore che pubblica sei romanzi l’anno e i cui contratti per libri, adattamenti, e traduzioni sono in più di venti lingue. Con grande garbo e con una voce piena che arricchisce di sfumature la naturale gamma di significati di ogni affermazione, Georges Simenon continua il discorso cominciato in sala di pranzo.
Carvel Collins, 1955

[intervista a Georges Simenon]
Solo una volta un consiglio generico da parte di uno scrittore mi è stato molto utile. Si tratta di Colette. Scrivevo racconti per Le Matin, e Colette era caporedattrice della sezione letteraria all’epoca. Le sottoposi due racconti e li rifiutò entrambi e io continuai a provare, ancora e ancora. Alla fine mi disse, Senti, sono troppo letterari, sono sempre troppo letterari. Seguii il suo consiglio. È quello che faccio quando scrivo, la cosa principale quando riscrivo. Cosa intende con “troppo letterario”? E cosa elimina, un certo tipo di parole?
Aggettivi, avverbi, e ogni parola che è lì solo per fare effetto. Ogni frase che è lì solo per la frase. Hai ottenuto una frase meravigliosa - tagliala. Ogni volta che trovo una cosa del genere in uno dei miei romanzi la devo eliminare.
È a questo tipo di revisione che si sottopone in gran parte?
Quasi completamente.
Non si mette a rivedere la trama?
Oh, io non tocco mai niente in questo senso. Mi è capitato di modificare i nomi mentre scrivevo: una donna potrebbe chiamarsi Helen nel primo capitolo e Charlotte nel secondo, per esempio; e nella fase di revisione sistemo queste cose. E poi, taglio, taglio, taglio.
C’è qualcos’altro che vorrebbe dire a uno scrittore esordiente?
Scrivere è considerata una professione, ma io non la ritengo tale. Io penso che chi non sente di dover essere uno scrittore, chi pensa di poter fare qualcos’altro, allora dovrebbe fare qualcos’altro. Scrivere non è una professione ma una vocazione all’infelicità. Non credo che un artista possa mai essere felice.
Perché?
Innanzitutto perché credo che se un uomo ha l’urgenza di essere un artista vuol dire che ha bisogno di trovare se stesso. Ogni scrittore tenta di trovare se stesso attraverso i suoi personaggi, e attraverso tutta la sua scrittura.
Scrive per sé?
Sì. Certo.
È consapevole del fatto che ci saranno dei lettori del suo romanzo?
So che esistono molti uomini con dei problemi simili ai miei, più o meno profondi, che saranno felici di leggere il libro per trovare la risposta - ammesso che sia possibile trovarla.
Anche nel caso in cui l’autore non trovi la risposta, i lettori possono comunque trarre beneficio visto che lo scrittore sta evidentemente cercandola nel buio?
Esattamente. Certo. Non ricordo se le ho mai parlato di una sensazione che ho da diversi anni. Dal momento che la società, oggi, non ha né una fede incrollabile, né una stabile gerarchia di classi sociali, e la gente ha il terrore della grande organizzazione all’interno della quale sa di essere solo una piccola parte, leggere un certo tipo di romanzi è un po’ come spiare dal buco della serratura per vedere cosa fa e pensa il vicino di casa - ha anche lui lo stesso complesso di inferiorità, gli stessi vizi, le stesse tentazioni? È questo che il lettore cerca nell’opera d’arte. Credo che oggi siano aumentate le persone insicure in cerca di sé.
Ci sono così poche opere come quelle che scriveva Anatole France, per esempio — calme, eleganti e rassicuranti. Al contrario, oggi la gente vuole libri molto complessi, che approfondiscano ogni recesso della natura umana. Capisce cosa intendo?
Immagino di sì. Lei intende dire che questo non dipende solo dal fatto che oggi pensiamo di saperne di più di psicologia ma anche dal fatto che esistono più lettori che hanno bisogno di questo tipo di letteratura. È così?
Sì. Un uomo qualunque di cinquant’anni fa... Ci sono molti problemi oggi che non conosceva. Cinquant’anni fa aveva le risposte. Oggi non più.
All’incirca un anno fa io e lei abbiamo sentito un critico invocare che il romanzo di oggi tornasse a essere come quello del diciannovesimo secolo.
È impossibile, del tutto impossibile, credo. Perché viviamo in un tempo in cui gli scrittori non hanno sempre delle barriere intorno, possono cercare di presentare i personaggi attraverso la più completa e totale espressione. Si può rappresentare l’amore in una bella storia, i primi dieci mesi di due amanti, come nella letteratura di molto tempo fa. Oppure in un secondo tipo di storia: i due cominciano ad annoiarsi; e questa è la letteratura della fine del secolo scorso. E poi, se sei libero di poter andare oltre, l’uomo ha cinquant’anni e vuole avere un’altra vita, la donna si ingelosisce, e i figli vengono messi in mezzo; questo è il terzo tipo di storia. Noi oggi siamo la terza storia. Non ci fermiamo quando si sposano, non ci fermiamo quando cominciano ad annoiarsi, noi andiamo fino in fondo.
In relazione a questo, sento spesso gente che si chiede il perché della violenza nella letteratura moderna. Io sono favorevole, ma vorrei domandarle il motivo per cui ne scrive.
Siamo abituati a vedere persone portate al limite.
E la violenza ha a che fare con questo?
Più o meno. Non pensiamo più all’uomo dalla prospettiva di alcuni filosofi; per molto tempo l’essere umano veniva osservato partendo dal presupposto che vi fosse un Dio e che l’uomo era il re della creazione. Ora non pensiamo più che l’uomo sia il re della creazione. Lo guardiamo bene in faccia. Alcuni lettori vorrebbero ancora leggere dei romanzi rassicuranti, che diano una visione confortante dell’umanità. Questo non è possibile.
Quindi se le interessano i lettori, è perché loro vogliono un romanzo che esplori i problemi di ognuno? Il suo ruolo è quello di guardarsi dentro e...
Esatto. Questo non significa che l’artista debba solo guardare dentro di sé ma che sappia guardare anche dentro gli altri attraverso l’esperienza che ha di sé. Scrive con immedesimazione perché sente che l’altro è come lui.
Se non ci fossero lettori continuerebbe a scrivere?
Certo. Quando ho cominciato a scrivere non l’ho fatto pensando che i miei libri avrebbero venduto. Più precisamente, all’inizio scrivevo pezzi commerciali — racconti per riviste e cose del genere — per guadagnarmi da vivere, ma non l’ho mai considerata vera scrittura. Alla sera, invece, quando lo facevo per me stesso, scrivevo senza l’idea che un giorno avrei pubblicato.
Forse ha avuto più esperienza di chiunque altro al mondo nella produzione di quella che ha appena definito scrittura commerciale. Che differenza c’è fra questa e quella non commerciale?
Io definisco “commerciale” ogni opera, non solo nel campo della letteratura ma anche della musica, della pittura e della scultura - qualunque tipo di arte - che venga prodotta per un determinato pubblico o per una certa pubblicazione o per una particolare raccolta. Ovviamente ci sono diversi gradi di scrittura commerciale. Esistono cose molto scadenti e altre invece di valore. I libri del mese, per esempio, sono commerciali; ma alcuni sono quasi perfetti, quasi delle opere d’arte. Non del tutto, ma quasi. E vale lo stesso per alcuni pezzi pubblicati dalle riviste; alcuni sono meravigliosi. Ma raramente possono essere considerati opere d’arte, perché un’opera d’arte non può essere concepita con lo scopo di accontentare un certo gruppo di lettori.
E in che modo questo cambia l’opera? Lei, in quanto autore, sa se ha confezionato un romanzo per il mercato, ma, guardandola soltanto dal di fuori, che differenza dovrebbe percepire il lettore?
La differenza maggiore sta nelle concessioni. Scrivendo per un qualsiasi scopo commerciale devi necessariamente scendere a patti.
Con l’idea che la vita sia ordinata e dolce, per esempio?
E con l’etica. Forse questa è la più importante. Non puoi scrivere nulla di commerciale senza accettare un codice di qualche tipo. C’è sempre un codice - a Hollywood, come in televisione e alla radio. Per esempio, oggi esiste un bellissimo programma televisivo, forse il migliore per le commedie. I primi due atti sono sempre di prim’ordine. Hai l’impressione di trovarti di fronte a qualcosa di completamente nuovo e forte, e poi alla fine ecco che arriva la concessione. Non sempre il lieto fine, ma qualcosa che venga a risistemare tutto dal punto di vista della moralità o dell’etica - capisce cosa intendo. Tutti i personaggi, concepiti alla perfezione, cambiano completamente negli ultimi dieci minuti.
Nei suoi romanzi non commerciali ha mai bisogno di fare concessioni di qualche tipo?
Mai, mai, mai. Non lo faccio mai. Altrimenti non scriverei. È troppo doloroso scrivere se non lo fai per arrivare fino in fondo.
Lei mi ha mostrato le buste di manila che usa quando inizia un romanzo. Prima di mettersi realmente a scrivere, quanto tempo passa consciamente a lavorare al progetto di un determinato romanzo?
Come suggerisce lei, bisogna fare una distinzione fra consciamente e inconsciamente. Inconsciamente ne ho sempre due o tre in mente, non romanzi, non idee per un romanzo, ma temi. Non ho mai pensato potessero servirmi per un romanzo; e per essere precisi, sono le cose che mi danno più tormento. Due giorni prima che io mi metta a scrivere un romanzo mi occupo consapevolmente di una di queste. Ma ancora prima che me ne occupi consapevolmente, trovo l’atmosfera. Oggi c’è il sole. Magari mi viene in mente una particolare primavera, forse in una piccola cittadina italiana, o in un posto di una provincia francese o in Arizona, non so, e poi, a poco a poco, un microcosmo verrà alla luce nella mia mente, insieme a qualche personaggio. Quei personaggi saranno in parte il risultato di persone che ho conosciuto e in parte frutto della pura immaginazione - come dire, un concentrato di entrambi. E poi l’idea che avevo prima tornerà e li ingloberà. Loro avranno lo stesso problema che ho in mente io. E quel problema – insieme a quelle persone – mi darà il romanzo.
Questo succede un paio di giorni prima?
Sì, un paio di giorni. Perché appena ho un inizio non riesco a tenermelo dentro per molto tempo; il giorno dopo prendo la mia busta, prendo il mio elenco telefonico per i nomi, e la piantina della città – sa, per vedere esattamente dove accadono i fatti. E due giorni dopo comincio a scrivere. E l’inizio sarà sempre lo stesso; è quasi un problema geometrico: ho un determinato uomo, una determinata donna, in un certo ambiente. Cosa può succedere che obblighi entrambi a raggiungere il limite? È questa la domanda. A volte sarà un evento di poco conto, qualunque cosa possa cambiare la loro esistenza. Poi scrivo il romanzo, un capitolo dopo l’altro.
E sulla busta che le serve per pianificare cosa ha scritto? Non lo schema dell’azione?
No, no. Non so niente degli eventi quando comincio il romanzo. Sulla busta scrivo solo i nomi dei personaggi, la loro età, e le loro famiglie. Non so assolutamente nulla dei futuri avvenimenti. Altrimenti non lo troverei interessante.
In che momento gli eventi cominciano a prendere forma?
Alla vigilia del primo giorno so cosa succederà nel primo capitolo. Poi, giorno dopo giorno, capitolo dopo capitolo, scopro cosa avviene dopo. Una volta iniziato un romanzo scrivo un capitolo al giorno, senza mai saltare un giorno. Vista la fatica, devo tenermi al passo con il romanzo. Se, per esempio, mi ammalo per quarant’otto ore, devo buttare via i capitoli precedenti. E non ritorno mai su quel romanzo.
Quando scriveva narrativa commerciale, usava lo stesso metodo?
No. Niente affatto. Quando scrivevo un romanzo commerciale non pensavo mai a quel romanzo se non nelle ore in cui ci lavoravo. Ma oggi, mentre lavoro a un romanzo, non vedo nessuno, non parlo con nessuno, non rispondo al telefono – faccio la vita di un monaco. Per tutto il giorno io sono uno dei miei personaggi. Sento quello che sente lui.
Ed è lo stesso personaggio durante tutta la stesura di quel romanzo?
Sempre, perché la maggior parte dei miei romanzi mostrano quello che succede intorno a un personaggio. Gli altri sono visti attraverso i suoi occhi. Quindi è nella pelle di quel personaggio che devo entrare. E diventa quasi insopportabile dopo cinque o sei giorni. È per questo che i miei romanzi sono tanto brevi; dopo undici giorni non resisto più, è impossibile. È più forte di me, una questione fisica. Sono troppo stanco.
Lo credo bene. Soprattutto se porta il suo protagonista al limite.
Sì, sì.
E interpreta quel ruolo in sua compagnia...
Sì. Ed è terribile. È per questo che prima di cominciare un romanzo – e può sembrare sciocco, ma è la verità – generalmente qualche giorno prima verifico di non avere appuntamenti nei successivi undici giorni. Poi telefono al medico. Mi misura la pressione, e fa un controllo generale. E poi mi da l’ok.
Pronto per partire.
Esatto. Perché devo essere certo di stare bene per undici giorni.
Il medico poi ritorna dopo gli undici giorni?
Solitamente sì.
Idea sua o del medico?
Del medico.
E cosa trova?
La pressione di solito è bassa.
E cosa ne pensa il medico? Che va bene?
Ritiene che vada bene ma che non sia salutare farlo spesso.
Le impone dei limiti?
Sì. A volte dice, Senta, dopo questo romanzo deve prendersi un paio di mesi di riposo. Ieri, per esempio, ha detto, Va bene, ma quanti romanzi vuole concludere prima di partire quest’estate? Ho risposto. Due. Va bene, ha detto.
Bene. Ora vorrei chiederle se sulla base del modo in cui si sono rivelate nei suoi romanzi lei vede un disegno nello sviluppo delle sue idee.
Non sono io ad averlo intravisto, ma alcuni critici francesi. Per tutta la vita, la mia vita letteraria, se così posso dire, ho affrontato determinati problemi nei miei romanzi, e all’incirca ogni dieci anni ho ripreso gli stessi problemi da un altro punto di vista. Ho la sensazione che probabilmente non troverò mai la risposta. So che alcune questioni le ho trattate più di cinque volte.
E sa anche che prima, o poi le riprenderà?
Sì, lo farò. E poi ce ne sono altre di problematiche – se così si possono definire – sulle quali non tornerò mai più, perché ho l’impressione di averle analizzate fino in fondo. Non mi interessano più.
Quali sono i temi di cui si è occupato di più che pensa di voler trattare di nuovo in futuro?
Uno di quelli che, per esempio, è probabile che mi perseguiterà più di ogni altro è il problema della comunicazione. Mi riferisco alla comunicazione fra due persone. Siamo in non so quanti milioni oggi, eppure la comunicazione, una comunicazione completa, è del tutto impossibile tra due persone, e questo fatto è per me tra le cose più tragiche del mondo. Quando ero un ragazzino ne avevo paura. Arrivavo quasi a urlare. Mi dava una tale sensazione di isolamento, di solitudine. È un tema che ho affrontato non so nemmeno quante volte. Ma so che tornerà. Tornerà ancora, senza dubbio.
E un altro?
Un altro mi pare sia il tema della fuga. Tra due giorni che ti cambiano completamente la vita: senza la minima preoccupazione per ciò che è accaduto prima, prendi e vai. Capisce cosa intendo?
Ricominciare da capo?
Nemmeno ricominciare da capo. Andare verso il nulla.
Capisco. Lei suppone che tra i prossimi argomenti da trattare possa esserci una di queste tematiche o qualche altra? Oppure è una domanda che non dovrei farle?
Uno è abbastanza prossimo, credo. Sarà qualcosa sulla tematica che riguarda padre e figlio, due generazioni, l’uomo che arriva e l’uomo che va. Non è proprio così, ma non ho ancora le idee molto chiare per poterne parlare.
Questo tema potrebbe essere associato al tema della mancanza di comunicazione?
Esatto; è la ramificazione dello stesso problema.
Quali sono i temi che sa quasi per certo che non affronterà più?
Uno, credo, è quello della disintegrazione di un gruppo, dove il gruppo era generalmente la famiglia.
Ha affrontato spesso questo argomento?
Due o tre volte, forse di più.
Nel romanzo Pedigree?
In Pedigree, esatto, sì. Se dovessi scegliere di far sopravvivere uno solo dei miei romanzi, non sceglierei mai Pedigree.
Quale sceglierebbe?
Il prossimo.
E poi il prossimo dopo il prossimo?
Proprio così. Sempre quello dopo. Vede, anche dal punto di vista tecnico adesso ho la sensazione di essere molto lontano dalla meta.
Oltre ai prossimi, sarebbe disposto a citare uno fra i suoi romanzi pubblicati che vorrebbe sopravvivesse?
Nemmeno uno. Perché quando concludo un romanzo ho sempre l’impressione che non sia riuscito. Non sono scoraggiato, ma vedo – voglio riprovarci.
Devo specificare una cosa però — io ritengo che i miei romanzi siano tutti più o meno sullo stesso piano, anche se ci sono dei gradini. Dopo un gruppo di cinque o sei romanzi faccio una specie di – non mi piace il termine progresso – ma mi sembra che ci sia proprio un progresso. C’è un salto di qualità, direi. Quindi ogni cinque o sei romanzi ce n’è uno che preferisco.
Fra i romanzi oggi in commercio, quale considera uno di questi?
I fratelli Rico. La storia potrebbe essere la stessa se al posto del gangster ci fosse il cassiere di una delle nostre banche o un certo insegnante che conosciamo.
La posizione di un uomo viene minacciata e lui farà qualunque cosa pur di mantenerla.
Proprio così. Un uomo che desidera restare sempre in alto insieme al piccolo gruppo in cui vive. E che sacrificherà ogni cosa pur di restarci. Magari è un bravissimo uomo, ma ha fatto un tale sforzo per essere dov’è che non accetterà mai di non poterci più stare.
Mi piace la semplicità con cui quel romanzo ottiene così tanto.
Ho cercato di farlo in maniera molto semplice, semplicemente. E non c’è nemmeno una frase “letteraria”, lo sa? È come se fosse stato scritto da un bambino.
Prima ha accennato al fatto di pensare a un’atmosfera quando si mette a concepire un romanzo.
Quello che intendo per atmosfera si potrebbe tradurre con “poetica”. Riesce a capire cosa intendo?
La parola “stato d’animo” si avvicina abbastanza?
Sì. E allo stato d’animo si accorda la stagione, si accordano i dettagli – al principio è quasi come un tema musicale.
E fino ad allora non è ancora ambientato in un luogo geografico preciso?
Per niente. Questa è l’atmosfera per me, perché cerco – e non credo di esserci riuscito, altrimenti i critici lo avrebbero scoperto – attraverso la prosa, e il romanzo, di fare quello che normalmente si fa con la poesia. Intendo dire che tento di andare oltre le cose reali, e le idee spiegabili, e di esplorare l’uomo... senza farlo attraverso il suono delle parole come tentavano di fare i romanzi poetici di inizio secolo. Non so spiegarlo tecnicamente ma... cerco di includere nei miei romanzi alcuni elementi che non possono essere spiegati, di dare un messaggio che dal punto di vista pratico non esiste. Capisce cosa intendo? Qualche giorno fa ho letto che T.S. Eliot, che ammiro moltissimo, ha scritto che la poesia è necessaria in opere che raccontano un certo tipo di storia e non in alcune che ne raccontano altre, che dipende dall’argomento che si sta trattando. Non credo sia così. Ritengo che si possa trasmettere lo stesso messaggio segreto con qualsiasi tipo di argomento. Se hai una determinata visione del mondo la poesia la metterai ovunque, necessariamente.
Ma forse sono l’unico a pensare che ci sia qualcosa del genere nei miei libri.
Una volta ha affermato di voler scrivere il romanzo “puro”. Era questo che intendeva poco fa — quando parlava di tagliare le parole e le frasi “letterarie”— oppure il termine ha a che fare anche con la poesia di cui ha appena parlato?
Il romanzo puro riuscirà solo in quello in cui il romanzo riesce. Voglio dire che non deve insegnare e non deve fare giornalismo. In un romanzo puro non impiegheresti sessanta pagine per descrivere il Sud o l’Arizona o un qualunque paese europeo. C’è solo il dramma, e tutto ciò che fa parte di questo dramma. Quello che penso dei romanzi oggi è quasi la trasposizione delle regole della tragedia al romanzo. Ritengo che il romanzo sia la tragedia dei nostri giorni.
La lunghezza è importante? Rientra nella sua definizione di romanzo puro?
Sì. Sembrerebbe una questione pratica, ma credo sia importante, per lo stesso motivo per cui non si può assistere a una tragedia in più di una seduta. Nel romanzo puro c’è una tale tensione per il lettore che non si può fermare a metà per poi ricominciare il giorno dopo.
E dal momento che la televisione, il cinema e le riviste sono sottoposti ai codici di cui parlava, suppongo che secondo lei lo scrittore del romanzo puro sia quasi obbligato a scrivere in libertà.
Sì. E c’è una seconda ragione per cui dovrebbe farlo. Credo che oggi, probabilmente per motivi politici, i propagandisti stiano cercando di creare un certo tipo di uomo. Penso che il romanziere debba mostrare l’uomo per quello che è, e non come quello della propaganda. E non mi riferisco solo alla propaganda politica; mi riferisco al tipo di uomo che ti insegnano al terzo anno di scuola, un uomo che non ha niente a che vedere con l’uomo reale.
Cosa pensa dell’adattamento dei suoi libri per il cinema e la radio?
Sono cose importanti per lo scrittore di oggi. Forse perché sono l’unico modo che lo scrittore ha per essere ancora indipendente. Prima mi ha chiesto se faccio delle modifiche “commerciali” nei miei romanzi. Ho detto di no. Ma senza la radio, la televisione e il cinema, dovrei.
Una volta mi ha detto che Gide le diede un consiglio pratico utile per uno dei suoi romanzi. Ha influenzato nel complesso il suo lavoro?
Non credo. Ma con Gide fu divertente. Nel 1935 il mio editore mi disse che voleva organizzare un cocktail per farci incontrare, dato che Gide gli aveva detto di aver letto i miei romanzi e che gli avrebbe fatto piacere conoscermi. Così ci andai, e Gide passò più di due ore a farmi domande. Dopo lo rividi diverse volte, e mi scriveva quasi tutti i mesi e talvolta anche più spesso fino alla sua morte – e sempre per farmi delle domande. Quando andavo a trovarlo vedevo sempre i miei libri con così tante annotazioni ai margini che erano diventati più di Gide che di Simenon. Non gli chiesi mai niente al riguardo; ero molto timido sulla questione. E adesso non lo saprò mai.
Le chiedeva qualcosa in particolare?
Mi chiedeva di tutto, ma specie sul meccanismo della mia – posso usare la parola? Mi sembra pretenziosa – creazione. E credo di sapere perché gli interessasse. Io penso che Gide abbia sognato per tutta la vita di essere il creatore invece che il moralista, il filosofo. Io ero il suo esatto contrario, e immagino fosse questo il motivo del suo interesse.
Ebbi la stessa esperienza due anni dopo con il Conte Keyserling. Mi scriveva esattamente come Gide. Mi chiese di andarlo a trovare a Darmstadt. Ci andai e mi fece domande per tre giorni e tre notti. Poi venne a trovarmi a Parigi e mi fece altre domande e commentò ognuno dei miei libri. Per la stessa ragione.
Keyserling mi chiamava un imbécille de génie.
Ricordo quando mi disse che nei suoi romanzi commerciali a volte includeva un passaggio o un capitolo non commerciale.
Sì. Per esercitarmi.
In che modo quella parte differiva dal resto del romanzo?
Invece di limitarmi a scrivere la storia, in quel capitolo tentavo di dare una terza dimensione, non necessariamente a tutto il capitolo, magari a una stanza, a una sedia, a qualche oggetto. Sarebbe più facile spiegarlo usando la terminologia della pittura.
E come?
Per rendere l’idea del peso, un pittore commerciale dipinge in modo piatto; puoi passarci il dito attraverso. Ma solo un pittore – ad esempio, una mela di Cézanne ha un peso. Ha la polpa, e tutto, e solo con tre pennellate. Cercavo di dare alle mie parole lo stesso peso che una pennellata di Cézanne dava a una mela. È per questo motivo che il più delle volte uso parole concrete. Cerco di evitare le parole astratte, o poetiche, come crepuscule, per esempio. È molto bella, ma non rende niente. Mi capisce? Cerco di evitare ogni pennellata che non dia qualcosa a questa terza dimensione.
In questo senso, io penso che quella che i critici definiscono l’atmosfera nei miei romanzi non è altro che l’impressionismo del pittore adattato alla letteratura. La mia infanzia risale al periodo degli Impressionisti e andavo sempre ai musei e alle mostre. Sviluppai lì questa percezione. Ne ero perseguitato.
Ha mai dettato le sue opere di narrativa, commerciale o di altro genere?
No. Io sono un artigiano; ho bisogno di lavorare con le mani. Vorrei poter scolpire il mio romanzo da un pezzo di legno. I miei personaggi vorrei che fossero più pesanti, più tridimensionali. E vorrei creare un uomo in cui chiunque ci possa trovare i propri problemi. Per questo ho parlato di poesia, perché questa ambizione mi sembra più lo scopo di un poeta che di un romanziere. I miei personaggi hanno un lavoro, hanno delle caratteristiche; si conosce la loro età, la loro situazione familiare, e il resto. Ma cerco di dare un peso a ciascuno di loro, come fosse una statua, e di renderlo fratello di ogni persona al mondo. E ciò che mi fa felice sono le lettere che ricevo. Non parlano mai della bellezza del mio stile; sono le lettere che un uomo scriverebbe al suo medico o allo psicanalista. Dicono, Lei mi capisce. Così tante volte mi sono ritrovato nei suoi romanzi. E poi mi mandano pagine di confidenze; non sono persone folli. Ci sono anche quelle, certo; ma molte sono invece persone che... anche persone importanti. Mi stupisco.
C’è stato nella sua infanzia un libro o un autore che l’abbiano particolarmente colpito?
Forse chi mi ha colpito di più è stato Gogol’. E naturalmente Dostoevskij, ma meno di Gogol’.
Perché pensa che Gogol’ abbia destato il suo interesse?
Probabilmente perché crea dei personaggi uguali alle persone reali ma allo stesso tempo ha quella che poco fa ho definito terza dimensione, che è quello che cerco. Hanno tutti un’aura poetica. Ma non quella alla Oscar Wilde – una poesia spontanea, che esiste già, come quella di Conrad. Ogni personaggio ha il peso di una scultura, ha la stessa pesantezza, la stessa densità.
Dostoevskij disse, parlando di sé e di alcuni colleghi scrittori, che provenivano dal Cappotto di Gogol’, e ora lei afferma lo stesso di sé.
Sì. Gogol’. E DostoevskiJ.
Uno o due anni fa, mentre io e lei discutevamo di un particolare processo del momento, lei dichiarò di seguire spesso e con interesse articoli del genere. Leggendoli, le capita mai di pensare, Ecco, questa è una cosa sulla quale potrei lavorare in uno dei miei romanzi?
Sì.
E la archivia appositamente da qualche parte?
No. Mi dimentico di aver detto che mi sarebbe stata utile un giorno, e tre o quattro o dieci anni dopo mi torna in mente. Non ho archivi.
A proposito di processi, qual è secondo lei la principale differenza, se ve n’è alcuna, fra i suoi gialli — come quello di Maigret che ha concluso qualche giorno fa — e i suoi romanzi più seri?
La stessa identica differenza che esiste fra il dipinto di un pittore e il disegno che potrebbe fare per suo diletto o per i suoi amici o come metodo di studio.
Nei romanzi di Maigret lei osserva il personaggio esclusivamente dal punto di vista dell’investigatore?
Sì. Maigret non può entrare nei personaggi. Lui vede, spiega, e comprende; ma non dà al personaggio il peso che quel personaggio avrebbe in un altro dei miei romanzi.
Quindi negli undici giorni trascorsi a scrivere un romanzo di Maigret la sua pressione arteriosa non varia molto.
No. Molto poco.
Non porta l’investigatore ai limiti della sopportazione.
Esatto. Di conseguenza l’unica fatica è quella naturale dopo aver passato tante ore alla macchina da scrivere. Altrimenti, nessuna.
Un’ultima domanda, se posso. Le critiche generali della stampa hanno mai influito consapevolmente sul suo modo di scrivere? Da quello che dice immagino di no.
Mai. Ho una volontà di ferro per quel che riguarda la mia scrittura, e continuerò per la mia strada. Per vent’anni i critici hanno sempre detto la stessa cosa: È ora che Simenon produca un grande romanzo, un romanzo con venti o trenta personaggi. Non capiscono. Non scriverò mai un grande romanzo. Il mio romanzo più grande è il mosaico dei miei più brevi. Lei capisce?

Numero 9, 1955