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 2012  ottobre 10 Mercoledì calendario

POTER MORIRE COME MIO SUOCERO SENZA PIÙ ACCANIMENTO

UN MESE fa, risvegliatosi dall’anestesia in un ospedale inglese, Anthony Gilbey trova al capezzale la figlia e un medico di turno. L’intervento non è riuscito, lo informa il dottore. Non c’è niente da fare. «Sto morendo?», chiede. «Sì», tentenna il medico. «Papà, stai morendo », conferma la figlia. «Allora, niente più bisboccia». « Ne faremo, eccome», gli promette lei, mia moglie. Il paziente si mette a ridere. Sei giorni dopo, a pochi mesi dal suo ottantesimo compleanno, muore. A mio suocero fu detto che l’ospedale aveva fatto il possibile, però non era del tutto vero. Certo, i medici non potevano far nulla contro l’inoperabile tumore, ma avrebbero potuto mantenere in funzione con la dialisi i suoi reni ormai compromessi, somministrargli insulina per controllare il diabete. Il pacemaker avrebbe continuato a far battere il cuore, perciò una terapia aggressiva avrebbe potuto prolungare per qualche tempo la sua vita. Molti lo avrebbero fatto. L’ospedale dove lui era ricoverato però offre ai pazienti un protocollo chiamato Liverpool Care Pathway for the Dying Patient, un percorso di assistenza concepito negli anni Novanta a Liverpool in un istituto di cura per tumori come alternativa più umana all’accanimento terapeutico praticato su pazienti ormai prossimi alla morte. «Il giuramento di Ippocrate spinge i medici ospedalieri a curare in ogni caso il paziente, sino al momento del decesso », dice Sir Thomas Hughes-Hallett, ex direttore del centro.Il Liverpool Care Pathway adatta al contesto ospedaliero molte pratiche di assistenza in genere limitate agli ospizi, offrendole a un maggior numero di pazienti terminali. «Non si tratta di affrettare il decesso», dice Sir Thomas, «ma di riconoscere che una persona è giunta alla fine della propria vita, e di offrirgli delle scelte. Desidera una maschera di ossigeno sul volto? O vorrà baciare la moglie?». I medici di Anthony Gilbey avevano concluso che non avesse senso prolungare un’esistenza vicinissima alla fine, tormentata da dolore, immobilità, incontinenza, depressione, progressiva demenza. Il paziente e i familiari erano dello stesso avviso. Perciò l’ospedale ha smesso di somministrare insulina e antibiotici, scollegato i tubi d’alimentazione e idratazione, lasciando solo una fleboclisi per tenere sotto controllo dolore e nausea. L’andirivieni di maschere d’ossigeno, termometri, apparecchiature per misurare la pressione e monitorare il battito cardiaco è stato interrotto. Le infermiere hanno trasferito il paziente in una camera silenziosa, lontana dal bip bip dei macchinari, in attesa del trapasso. Negli Stati Uniti, nulla infervora ildibattito sulle cure sanitarie più che la questione di quando e come negarle. Il Liverpool Care Pathway, o altre varianti, oggi rappresenta la norma negli ospedali britannici e in diversi altri Paesi, ma non in America. Questo per un motivo ovvio, e per un altro, meno ovvio. Il motivo ovvio è che i paladini di simili iniziative sono stati demonizzati: criticati dalla Chiesa cattolica nel nome della “vita” e diffamati da Sarah Palin e Michele Bachmann in nome di un vile tornaconto politico. I sostenitori britannici dell’approccio Liverpool sono stati vittime di attacchi analoghi — in particolare dai lobbisti che si battono per il “diritto alla vita”, che lo vedono come una sorta di eutanasia, ma anche dei paladini dell’eutanasia, che non lo considerano sufficientemente “eutanasico”. Le indagini sulle famiglie che si sono avvalse dell’approccio Liverpool rilevano pareri favorevoli; tuttavia, è inevitabile che certe pratiche che toccano le corde più intime delle famiglie e richiedono il coordinamento di diverse discipline mediche, infermieristiche e di consulenza familiare, non riescano sempre ad assicurare una fine agevole quanto quella di mio suocero. Sospetto, però, che il problema meno ovvio derivi dal fatto che inAmerica i promotori di simili iniziative tendano a presentarle come una questione economica: un quarto o più dei costi dell’assistenza sanitaria si concentra nell’ultimo anno di vita. Questoindica che stiamo sperperando una fortuna per garantirci qualche settimana o mese in più di vita, da trascorrere attaccati a delle macchine e consumati dalla paura e dal disagio. L’esigenza di contenere la spesa sanitaria è indubbiamente impellente. Il piano promosso da Obama è un punto di partenza, poiché prevede l’istituzione di una commissione che identifichi possibili aree di risparmio. Ma non è che un inizio. Il buon senso suggerisce che potremmo risparmiare ulteriormente negando le cure mediche nei casi in cui, anziché salvare una vita, servano solo a prolungare per breve le sofferenze. Tuttavia, credo che si tratti di una posizione discutibile dal punto di vista economico e pessima sotto il profilo politico. Infatti, a prescindere dal buon senso, le prove che queste procedure producano un risparmio sono poche. Studiando i dati, piuttosto lacunosi, Emanuel conclude che, a parte l’assistenza ai malati di tumore, le misure prese per eliminare trattamenti vani nei pazienti prossimi alla morte non si sono tradotte in risparmi significativi. Anche se si riuscisse a dimostrare che le iniziative come il Liverpool Pathway consentono risparmi cospicui, promuovere l’assistenza per il fine vita per motivi fiscali alimenta i timori di chi ritiene che il sistema medico-industriale abbia fretta di portare i nostri cari all’obitorio per risparmiare il costo dei medici e liberare posti letto. Quando chiedo a degli specialisti britannici se il protocollo di Liverpool riduca effettivamente i costi, questi rispondono di non aver mai posto una simile domanda, né di aver intenzione di farlo. «Quest’anno sono usciti articoli molto sgradevoli sul Pathway, descritto come un modo per uccidere i pazienti in fretta e liberare posti letto », dice Sir Thomas. «Il momento che si tocca quel tasto si rischia di mettere a rischio l’intero programma». In America nulla accade senza un’analisi costi-benefici, ma l’argomento a favore di una morte meno straziante potrebbe poggiare su una base più neutra, meno inquietante, ovvero sul fatto che si tratta semplicemente di una morte più umana. Nei sei giorni precedenti alla morte, Anthony Gilbey, avvolto in una coltre di morfina, ha ripetutamente perso e riacquistato coscienza. Libero da tubi e da medici solleciti, ha potuto ricordare il passato, scusarsi, scambiare battute e promesse di amore con la famiglia, ricevere i sacramenti cattolici e ingoiare un’ostia che è stata forse il suo ultimo pasto. Poi è entrato in coma. È morto umanamente: amato, dignitoso, pronto. «Ho combattuto la morte tanto a lungo», aveva detto a mia moglie verso la fine. «È un tale sollievo potersi lasciare andare». Sarebbe bello se tutti potessimo morire come lui.