Roberto Coaloa, Libero 9/10/2012, 9 ottobre 2012
LA STORIA DEL NOVECENTO L’HANNO FATTA I GRANDI INVIATI
Il Novecento, con buona pace di Eric Hobsbawm, sarà ricordato come un lungo secolo, caratterizzato da violenze e da guerre inaudite: iniziato nel 1870, con la guerra franco- prussiana, è terminato, forse, nel 2001.
Per questo motivo, nell’analizza - re il «lungo» Novecento, osservando come esso sia stato raccontato da giornalisti e storici, partiremo dalle interpretazioni di due studiosi recentemente scomparsi, Hobsbawm, appunto, e Sir John Keegan. Due storici e impareggiabili comunicatori di storia, che hanno raccontato un intero secolo descrivendo poi il crollo dei regimi comunisti, la fine del sistema bipolare e il nuovo scenario mondiale dopo il 2001. Lo hanno fatto in maniera titanica, ampliando a dismisura il mestiere dello storico: Hobsbawm partecipando a tavole rotonde in televisione (le discussioni con Markus Wolf sulla guerra fredda, ora visibili anche su Youtube) e a lezioni in giro per il mondo, dal Messico (sotto i murales di Orozco a Guadalajara), all’Italia (nella flânerie padana del Festival letterario di Mantova), Keegan scrivendo per il Daily Telegraph.
Il giornalismo, infatti, è uno dei banchi di prova della comunicazione storica di molti studiosi, non solo anglosassoni. In Italia abbiamo avuto l’esempio di Rosario Romeo su Il Giornale. Altri giornali italiani sono stati e sono caratterizzati dalla presenza di storici: Il Corriere della Sera, ad esempio, con Paolo Mieli e Sergio Romano. Su IlSole-24Ore, sulle pagine del Domenicale, si è privilegiata per vent’anni la storia antica e quella medievale, con collaboratori come Franco Cardini, Emmanuel Le Roy Ladurie e Jacques Le Goff. Nel corso degli anni Novanta, sempre nel Domenicale è cresciuta progressivamente l’attenzione per la storia moderna e contemporanea, con contributi di Massimo Firpo e Giuseppe Galasso. In seguito si sono aggiunti Craveri, Melograni, Castronovo, Gerbi ed Emilio Gentile, come pure lo storico del Risorgimento Franco Della Peruta e una schiera di giovani studiosi. Ma attenzione: in questo caso, nella comunicazione storica, occorre distinguere il lavoro dello storico «da tavolino», che recensisce sui giornali opere dedicate al passato e analizza gli eventi, da quello dello studioso che contribuisce a «far scrivere» la storia, con reportage dagli scenari di guerra e interventi sull’attualità politica. In questo secondo caso, il lavoro giornalistico diventa una delle fonti primarie per le successive generazioni di storici. Ma che cosa è stato il giornalismo durante il Novecento, a partire dal 1914? Se prendiamo la data fatale del 1914, il 28 giugno, il giorno dell’attentato di Sarajevo ci accorgeremo che nessun giornale si accorse dell’immane catastrofe che si stava abbattendo sull’intera storia mondiale.
Ad esempio: di che cosa parlavano i giornali in Francia dopo il 28 giugno 1914? Di tutto il resto, fuorché del precipitare della situazione internazionale. L’ultimatum dell’Austria alla Serbia stava per gettare il mondo nella catastrofe, ma la stampa francese si occupava di cronaca nera. I titoli erano per una notizia assai succosa: in marzo la moglie di Joseph Caillaux, primo ministro nel 1911-12, aveva sparato al direttore di Le Figaro Gaston Calmette, che stava pubblicando le lettere appassionate che la coppia si era scambiata per anni, quando i due erano amanti. Il processo era iniziato il 20 luglio e il 28 dello stesse mese, Henriette Caillaux era stata assolta. Quando scoppia la guerra, che i giornali non avevano previsto, sulla Francia, e in generale su tutta l’Europa, cala il sipario sulla comunicazione: inizia un’era di censura e di propaganda. In Italia, il 24 maggio 1915, entrò in funzione la censura militare. Sugli effetti della censura, disponiamo di una testimonianza eccezionale, quella dello storico Marc Bloch, che nel 1921 scrisse un breve articolo sulle false notizie durante la guerra, Réflexions d’un historien sur les fausses nouvelles de la guerre. Per lo storico la censura costrinse il soldato a utilizzare una memoria orale, madre antica delle leggende e dei miti.
Nel dopoguerra gli storici si impegnarono ad analizzare la Grande Guerra e i suoi effetti: da Parigi scrisse pagine memorabili, veri e propri rapporti Giuseppe Antonio Borgese. Lo scrittore fu censurato all’epoca e fu estromesso dal quotidiano in cui lavorava, il Corriere della Sera, per le sue vedute in politica estera non allineate allo spirito del giornale. Diventò, invece, una fonte per lo storico, il lavoro giornalistico dello statunitense Hubert Renfro Knickerbocker. Il suo volume Will war come in Europe?, del 1934, è un capolavoro sulla storia europea tra le due guerre.
Con il fascismo e la Seconda guerra mondiale le cose peggiorarono in Italia. Accadde che un intellettuale come Aldo Valori, scrittore e storico, esperto di questioni militari sul Corriere della Sera, diventato inviato speciale e commentatore radiofonico per l’EIAR, venisse cacciato dai gerarchi, che gli preferirono un commentatore meno sincero.
Altri conflitti - il Vietnam, le nuove guerre dopo l’11 settembre 2011 - hanno visto impegnati gli storici nell’analizzare gli eventi. Spesso le «false notizie» hanno condizionato il giudizio degli studiosi. Nel 1991, ad esempio, la guerra in Jugoslavia era descritta dal Corriere della Sera come la «crisi jugoslava» e gli avvenimenti tragici di Dubrovnik erano commentati dal corrispondente a Vienna (Ettore Petta). Nel 1991 emerge il lavoro di inviati a Belgrado e Osijek (Alessio Altichieri ed Ettore Mo). Dopo il 2001, prevalgono le analisi di storici e specialisti. Sulle colonne della Stampa, Igor Man racconta la «battaglia finale» degli integralisti islamici. Ma quello che rimarrà come fonte storica per le successive generazioni sarà il lavoro degli inviati, l’ultimo quello della giornalista statunitense Marie Catherine Colvin, giornalista per il quotidiano britannico The Sunday Times, morta lo scorso 22 febbraio nell’assedio di Homs in Siria.