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 2012  ottobre 10 Mercoledì calendario

ATTENTATO ALLA SINAGOGA ANNIVERSARIO SENZA GIUSTIZIA

Alla sinagoga di Roma una ferita non si è mai rimarginata. 30 anni fa due bombe e numerose raffiche di mitra devastarono il cuore della più antica comunità ebraica d’Europa ma nessuno ha pagato. «Uno dei colpevoli è stato condanna all’ergastolo», spiega l’avvocato di parte civile Oreste Bisazza Terracini, ma la pena non fu mai scontata. Di quel giorno, 9 ottobre 1982, sono rimasti il dolore per la morte di un bimbo di due anni, Stefano Taché e per il ferimento di quaranta persone. Come segni tangibili della violenza terroristica, i buchi delle pallottole sul marmo candido del tempio maggiore e il presidio fisso dei carabinieri davanti all’entrata. Oggi cerimonia in sinagoga con il presidente Giorgio Napolitano e il rabbino capo Riccardo Di Segni in memoria del piccolo Stefano, ora «vittima di terrorismo».

Il «dispositivo di sicurezza» fu attivato dopo l’attentato, non prima. Quel 9 ottobre di 30 anni fa era un giorno speciale: in sinagoga si era svolta la cerimonia per la «maggiore età religiosa», la cerimonia che segna il passaggio all’età adulta dei piccoli della comunità. E proprio un bimbo cadde sotto il fuoco dei terroristi. La comunità era indifesa, la zona intorno alla sinagoga si trasformò in un inferno: dappertutto sangue, schegge di bombe, proiettili, vetri infranti, brandelli di vestiti. Accorsero il premier Spadolini e il presidente della Repubblica Pertini, ma dopo quello del dolore fu il momento della rabbia di una comunità che da quel momento cominciò a difendersi «anche da sola» con un suo servizio d’ordine, con i suoi uomini.

Il 12 ottobre si svolsero nel silenzio più assoluto i funerali di Stefano Taché. Tantissimi romani seguirono fino al cimitero del Verano la piccola bara bianca davanti alla quale si abbracciarono l’allora rabbino capo di Roma Elio Toaff e il presidente Pertini. Un corteo di ottomila giovani ebrei sfilò per le vie del centro. Ad aprirlo un solo slogan: «Esistere, vivere, convivere». Per un feroce attacco terroristico, per un’azione di guerra messa in atto contro persone inermi, nel 1989 fu condannato all’ergastolo in contumacia un palestinese, Abdel Al Zomar, ex presidente del gruppo universitario degli studenti palestinesi in Italia accusato di aver organizzato il massacro per conto di una fazione del gruppo capeggiato da Abu Nidal. Dalla Grecia fu espulso in Libia e negli anni solo un ministro degli Esteri (Frattini) ne ha chiesto conto a Tripoli. Le ferite del corpo si sono rimarginate, quelle dello spirito no. Tutti al ghetto ricordano come se fosse ieri. «Ero arrivato in sinagoga un po’ più tardi del solito», racconta Marco Di Porto, cantore del coro dal 1948. «C’erano feriti da raccogliere e trasportare di corsa all’ospedale. Ho prestato i primi soccorsi; poi ho iniziato a fare il giro degli ospedali». Nell’anticamera della sala operatoria del Fatebenefratelli, il padre di Stefano Taché, Yossi. Tutta la sua famiglia era stata colpita. Il più grave era il figlio minore, preso alla fronte da un colpo di mitraglietta. Rievoca Di Porto: «Mentre ero lì, un’infermiera uscì dalla sala operatoria scuotendo la testa: Stefano non ce l’aveva fatta. Yossi diede un pugno fortissimo a una vetrata, mandandola in frantumi». Lello Anav, che da allora vive con una scheggia di ordigno a due centimetri dal cuore, ricorda i corpi dei feriti per terra: «Preso dall’ansia di ritrovare mia moglie e mia madre li scavalcavo, non mi sono fermato per aiutarli». La moglie Alba l’ha riabbracciata in via Catalana, dove affaccia una delle tre uscite del tempio: «Io ero insanguinato, lei era ferita alle gambe». Molti si considerano «miracolati». La paura non svanisce, la giustizia sì.