Enrico Deaglio, la Repubblica 9/10/2012, 9 ottobre 2012
MERONI
Domenica 15 ottobre del 1967, la notizia cominciò a spargersi dopo le 21. Aveva la forza di quei venti gelidi che precedono la tempesta. Diceva che quel ragazzo portato al pronto soccorso dell’ospedale Mauriziano era Gigi Meroni, l’ala destra del Torino. Investito da un’auto, forse morto.
Ora era sul lettino del pronto soccorso e davanti, nel corridoio arrivava la folla. Erano infermieri, medici, gli allievi, i portantini, ma anche i malati in pigiama o con la vestaglia. Tanti salivano in piedi sulle due lunghe panche di metallo. Ma su così tanta calca gravava una specie di silenzio, mentre gli occhi cercavano di aprire quella porta e di sapere che cosa succedeva dentro. Poi la porta si aprì e comparve un infermiere, mandato dall’interno come portavoce. In piemontese pronunciò il verdetto: «Anche se vive, non potrà più giocare al fùtbol».
La folla cominciò a singhiozzare.
Erano in due, Meroni e il terzino Fabrizio Poletti, sulla mezzeria di corso Re Umberto, tornavano indietro dal bar Zambon. Un’Appia che aveva sorpassato nonostante la doppia riga, li aveva falciati; Poletti di striscio, Meroni in pieno spaccandogli le gambe. Ora si sentivano grida nel corridoio, sulla maledizione della squadra, sulla nuova Superga, sulla malignità del Fato: «Cristo, poteva morire Poletti!». Era arrivato Nestor Combin, il centravanti argentino con la faccia da indio, e dovevano tenerlo in tre perché cercava di uccidersi a testate contro le colonne di granito dell’ingresso. Era arrivato Fabbri, Topolino, Mondino avvolto in un impermeabile che piangeva da solo. Ormai c’erano centinaia di persone, quando la porta si aprì di nuovo, uscì il medico che, semplicemente, scosse la testa. Lasciò la porta socchiusa e dentro alcuni riuscirono a vedere per un attimo Gigi Meroni morto, la barba e i baffi neri come un Cristo messicano, con un grande fazzoletto bianco che gli reggeva il mento. Colpito da dietro, i due femori si erano frantumati ed erano esplosi.
Luigi Meroni, nato a Como nel 1943, ala destra del Torino, era alto appena 1,72, aveva il fisico di un pulcino, e giocava con i calzettoni abbassati alla Sivori, cosicché quando usciva dal campo si poteva vedere tutto il sangue sulle gambe, accumulato in novanta minuti di botte; entusiasmava e inteneriva per l’arte, il talento, la fragilità e una certa tristezza negli occhi. Si beveva come ridere dei lungagnoni come Facchetti o
Schnellinger, aveva le traiettorie impossibili, l’apoteosi nello spazio stretto, le girate repentine, il magnetismo tra piede e pallone. Era un “capellone”, un ribelle naturale e un artista. Gli dicevano “Tagliati i capelli, Meroni!”, ma lo dovettero convocare ugualmente in Nazionale tanto era bravo (e se lo avessero messo in campo dopo l’infortunio a Bulgarelli non avremmo avuto l’umiliazione della Corea). Dipingeva quadri, si era fatto restaurare una Balilla, portò una volta per Torino una gallina al guinzaglio, un’altra volta passeggiò scalzo; si disegnava lui stesso i suoi vestiti — certi gessati da gangster, camicie e cravatte dal collo spropositato. Lo chiamavano in tanti modi: “zingaro”, “ Calimero”, “ hidalgo”, “beat”, “farfalla”, ma il titolo più bello era “il quinto dei Beatles”, che condivideva con George Best del Manchester United.
Gigi Meroni non cercò mai la celebrità, ma gli capitò di essere un simbolo in un’Italia di cambiamento. Era cresciuto in un oratorio di Como, e si trovò spaesato quando lo vendettero al Genoa. I tifosi lo amarono talmente che ci furono “disordini”, quando Meroni venne comprato dal Torino. Si era innamorato di una ragazza del luna park, si chiamava Cristiana e andarono a vivere insieme, nonostante lei avesse dovuto subire un matrimonio combinato. Non protestava mai, Meroni; ma, per esempio, rifiutava di tagliarsi i capelli. Non parlava di politica, ma divenne un simbolo della libertà. Quella sua
barba lunga, poi, lo accomunava ai ribelli.
A Torino — per invidia e cattiveria — l’avvocato Agnelli arrivò ad offrire 750 milioni alla squadra concorrente, pur di vederlo giocare con la maglia della Juventus. Torino era ancora una città calma, allora, ma in migliaia minacciarono di scatenare “disordini”, se questo scandalo si fosse avverato; persino i sindacati, che a quell’epoca erano poco e niente, si dissero scandalizzati. E così, solo per paura della piazza, Meroni era rimasto granata.
La settimana dopo la sua morte, si giocava il derby. Si capì da che parte stavano, rispettivamente, il Bene e il Male. Poletti scese in campo zoppo, Nestor Combin, l’indio, con 39 di febbre, segnò tre gol frutto di rabbia pura. Il quattro a zero lo siglò Carelli, un ragazzo, ma tutti capirono che il gol non lo aveva fatto lui, ma la maglia numero sette che indossava.