Marco Fortis, Il Sole 24 Ore 6/10/2012, 6 ottobre 2012
DEBITO-ENTRATE, RAPPORTO PIÙ VIRTUOSO - C’è
un tipo di debito pubblico, quello che nasce dalla spesa improduttiva e dai costi vecchi e nuovi della politica (come i recenti rimborsi fuori controllo dei consigli regionali), che suscita sdegno. Ma l’Italia non soffre oggi solo per queste degenerazioni della spesa. Patisce anche la valutazione complessiva del suo debito misurata unicamente in rapporto al Pil, un indicatore "totem" che ci imprigiona come in una camicia di forza e ci costringe a sforzi fiscali tremendi, realizzati per lo più mediante incrementi delle tasse a carico di cittadini e imprese. Altri Paesi avanzati, in virtù di un rapporto debito/Pil più basso del nostro, pur avendo livelli assoluti e pro capite di debito ormai uguali o più alti di quelli dell’Italia possono continuare a praticare politiche fiscali meno restrittive, il che permette loro non solo di soffrire di meno ma anche di crescere di più. Mentre il nostro Paese fa sacrifici enormi, che per giunta l’hanno spinto in una grave recessione.
Ma siamo davvero sicuri che il rapporto debito/Pil sia un indicatore corretto? La nostra risposta è che esso non basta da solo per comprendere se un debito pubblico è sostenibile o meno, specie nel caso del nostro Paese che, a suo vantaggio, può esibire il debito delle famiglie più basso tra i Paesi avanzati ed uno stock di patrimonio privato tra i più alti al mondo.
Ciò non significa che l’Italia non debba continuare nella politica del rigore e delle riforme. Ma occorrerebbe tenere conto anche di altri indicatori economici ben più significativi del rapporto debito pubblico/Pil, sulla base dei quali la nostra politica fiscale e quelle altrui andrebbero reciprocamente rivisitate, con due alternative: o anche le manovre finanziarie di molte altre economie avanzate ex virtuose devono diventare dure come le nostre o quelle dell’Italia dovrebbero essere meno violente. Anche perché il nostro Paese (che non è certo alla deriva come la Grecia o la Spagna) ha sempre onorato il suo debito, producendo negli ultimi vent’anni il più grande avanzo statale primario del mondo, circa 700 miliardi di euro, per pagare puntualmente gli interessi ai detentori dei propri titoli di Stato.
La sostenibilità dei conti statali, ed in particolare di quelli italiani, apparirebbe completamente diversa se, per soppesare il debito pubblico, al posto del Pil al denominatore fosse messo, come sosteniamo da tempo, il patrimonio finanziario ed immobiliare complessivo delle famiglie o anche soltanto quello finanziario. Non si tratta di una stravaganza, visto che lo stesso Fiscal Monitor del maggio 2010 del Fondo Monetario Internazionale analizzava tale indicatore per l’aggregato del G7 e lo raffrontava col corrispondente debito/Pil.
Ma c’è anche un altro indicatore di sostenibilità del debito pubblico che andrebbe considerato attentamente ed è il rapporto tra debito pubblico ed entrate statali. Tale indice per molti aspetti è più significativo del rapporto debito/Pil, anche se è meno pubblicizzato di quest’ultimo, forse perché rischia di diventare "imbarazzante" per tanti Paesi importanti a cui sta letteralmente sfuggendo di mano, a cominciare dagli Usa. Va precisato al proposito che il debito/Pil è convenzionalmente utilizzato perché è un indice che raffronta il debito con la dimensione relativa delle economie, ma in realtà non è col Pil che si può garantire o "rimborsare" il debito pubblico. Dal Pil si possono al massimo ricavare le entrate fiscali con cui lo Stato cerca di pareggiare il proprio bilancio annuale ed evitare così che il debito aumenti in valore assoluto. Perché, allora, non rapportare il debito direttamente con le entrate dello Stato anziché col Pil?
Analizzando l’esperienza storica di 25 Paesi avanzati, sulla base dei dati del Fmi il rapporto tra debito pubblico ed entrate statali (per brevità Dp/Es) vedeva nel 2000 solo 4 Paesi con un valore superiore al 200% (soglia di indebitamento elevato) e 4 Paesi con un valore superiore al 150% (indebitamento medio). Tutte le rimanenti economie presentavano un Dp/Es inferiore al 150% (indebitamento basso). Nel 2000, l’Italia era il Paese occidentale col rapporto Dp/Es di gran lunga più alto, assieme alla Grecia.
Poi tutto, in pochi anni, è cambiato. Già nel 2008 nel gruppo dei Paesi con un Dp/Es elevato entravano a far parte a pieno titolo gli Stati Uniti che sopravanzavano la stessa Italia. Ma è soprattutto dal 2008 in poi che si è verificato un autentico cataclisma. Infatti, i Paesi con un indebitamento elevato nel 2013 saliranno a 10. L’Italia scenderà in sesta posizione in questa scomoda classifica, preceduta oltre che dagli Stati Uniti (il cui valore Dp/Es schizzerà al 335%) anche da Irlanda e Portogallo, mentre altre importanti new entries, come la Gran Bretagna e la Spagna, sono ormai praticamente al nostro stesso livello di indebitamento pubblico (ci raggiungeranno entrambe nel 2015) ma con un debito privato assai più elevato di quello dell’Italia.
In una prospettiva di lungo periodo (si veda il grafico in alto) il Dp/Es dell’Italia ha avuto un trend sostanzialmente piatto, aumentando poco anche nel corso della recente crisi. Al contrario, i Paesi della "bolla" immobiliare, vale a dire Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna e Irlanda, e quelli dalla spesa pubblica facile, cioè Grecia e Portogallo, dal 2008 in poi hanno visto letteralmente esplodere i loro debiti pubblici in rapporto alle entrate statali.
Solo l’Italia, con 3 punti di Pil di entrate in più nel 2013 rispetto al 2008, ha fatto davvero i "compiti a casa". Le altre economie hanno invece annunciato solo vuoti buoni proponimenti. Sicché i loro conti statali stanno diventando sempre più pesanti.
In conclusione, per avere un debito pubblico davvero "tranquillo", specie in momenti turbolenti come quelli di oggi, serve a poco vantare un rapporto debito/Pil basso se poi non si riesce a far pagare tasse più elevate ai propri cittadini senza rischiare di scatenare una vera e propria rivolta sociale. In America, ad esempio, è noto che aumentare le tasse anche di un solo punto di Pil è un’impresa quasi impossibile, che né Obama né Romney potrebbero annunciare in campagna elettorale senza mettere a repentaglio la propria candidatura. Mentre se, all’opposto, l’Italia oggi riducesse le entrate statali anche di due punti di Pil, magari per allentare il carico fiscale su imprese e lavoratori e rilanciare crescita e consumi, essa non peggiorerebbe di molto il proprio rapporto Dp/Es.
Tutto ciò dimostra ancora una volta che l’Italia non sa rappresentare adeguatamente la propria reale situazione finanziaria ed i propri punti di forza, che, soprattutto all’estero ma anche nel nostro stesso Paese, sono poco conosciuti. Anche per questa ragione ci viene oggi chiesto dall’Europa, dalle istituzioni internazionali e dai mercati di fare più rigore del necessario, con grave pregiudizio per la crescita.