Piero Bianucci, La Stampa 8/10/2012, 8 ottobre 2012
IL MUSEO LOMBROSO NON VUOLE PERDERE LA TESTA
C’è un cranio conteso: l’Università di Torino, che lo conserva al Museo di antropologia criminale «Cesare Lombroso», si opporrà alla sentenza del Tribunale di Lamezia Terme che ne ha disposto la restituzione al Comune di Motta Santa Lucia, 800 abitanti sull’Appennino calabrese, provincia di Catanzaro. Il cranio è quello di Giuseppe Villella, piccolo malfattore del quale non rimarrebbe memoria se il caso non lo avesse fatto entrare nella Storia della scienza.
Capitò che nel 1864 a eseguire l’autopsia sul cadavere di Villella fu chiamato per l’appunto Lombroso, veronese di famiglia ebraica, torinese per carriera accademica, fondatore in Italia dell’antropologia criminale. Lombroso ravvisò nel cranio del brigante una anomalia che interpretò come un marchio della naturale predisposizione alla criminalità. Di questa anomalia, una fossetta riempita da un lobo del cervelletto, lo psichiatra veronese fece poi il cardine della sua teoria sull’origine «atavica» della delinquenza (non dimentichiamo che pochi anni prima, nel 1856, era stato scoperto l’uomo di Neandertal). Oggi sappiamo che la teoria dell’atavismo è del tutto sbagliata, ma per oltre mezzo secolo ebbe una grande fortuna. Dal punto di vista storico, il cranio di Villella è tuttora la pietra angolare dell’antropologia criminale positivista.
A rivendicare quelle ossa è il Movimento Neoborbonico, che ha tra i suoi leader Domenico Scilipoti, deputato Idv passato a Berlusconi e fondatore del Movimento di responsabilità nazionale. Dopo aver organizzato a Torino alcune manifestazioni di protesta, il Movimento Neoborbonico ha spinto il Comune di Motta Santa Lucia a intentare causa al Museo per riavere i teschi di Villella e di altri detenuti collezionati dallo psichiatra veronese ed ereditati dall’Università di Torino insieme con una grande quantità di altri reperti lombrosiani. Gustavo Denise, giudice del Tribunale di Lamezia Terme, ha sentenziato a favore del Comune calabrese: il museo dovrebbe restituire i teschi che conserva come documento della «scienza positiva», e quindi anche del metodo scientifico, che ha talvolta nell’errore un passaggio obbligato verso la conoscenza.
Ma il giudice ha respinto questi argomenti sostenuti dall’Università di Torino. Poiché l’errore scientifico è oggi ben noto (e il Museo ovviamente ne ha fatto uno dei suoi messaggi), non restituire il cranio di Villella sarebbe un po’ come trattenere in carcere un condannato del quale si è provata l’innocenza. In mancanza di eredi in vita, il museo torinese dovrebbe quindi consegnare il cranio al Comune di residenza, e qui gli si darebbe sepoltura.
Il dilemma giuridico è interessante. La sentenza, infatti, contrasta con una legge che considera inalienabile il patrimonio dei musei universitari. Insomma, ci sarà lavoro per gli avvocati.
Lombroso eseguì l’autopsia di Giuseppe Villella a Pavia. Dalla documentazione risulta che si trattava di un uomo di 69 anni alto un metro e 70, condannato tre volte per furto, la terza volta a sette anni di reclusione per furto e per aver incendiato un mulino. Al momento dell’autopsia Lombroso non sembrò attribuire importanza alle sue osservazioni, tanto che l’infermiere, Crispino Avetti, conservò solo il cranio e di Villella non furono eseguiti né il ritratto né un calco del volto, come invece avvenne per altri cadaveri studiati da Lombroso in quel periodo.
Lombroso ebbe la «rivelazione» cruciale per la sua teoria del «delinquente nato» soltanto sei anni dopo. Fu allora che attrasse la sua attenzione la fossetta occipitale mediana di quel cranio, un poco più grande della norma. Poiché questa caratteristica compare nei lemuri e in altri mammiferi, concluse che in Villella erano riemersi caratteri dell’uomo primitivo, causa prima del suo comportamento criminale. Ma la ricostruzione della scoperta è ancora più tardiva. Risale al 1906, tre anni prima della morte dello scienziato. «In una grigia e fredda mattina del dicembre 1870 - scrisse allora Lombroso - analizzando il cranio del brigante Villella mi apparve tutto ad un tratto, come una larga pianura sotto un infiammato orizzonte, risolto il problema della natura del delinquente, che doveva riprodurre così ai nostri tempi i caratteri dell’uomo primitivo giù giù fino ai carnivori».
Paradossalmente l’attribuzione a una caratteristica scheletrica di un comportamento morale, nel quadro deterministico del positivismo, scagionava il brigante. E mentre un museo universitario è chiamato a restituire un suo reperto storico, a Torino una mostra commerciale espone cadaveri di cinesi trattati in modo iper-realistico. Ma questa è un’altra storia.