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 2012  ottobre 08 Lunedì calendario

DALLE BR ALLE STRAGI DI MAFIA, UNA VITA DA CAPOSCORTA


È stato per una vita l’ombra di Gian Carlo Caselli. Il suo angelo custode con la ricetrasmittente in mano dagli anni di piombo del terrorismo a quelli di Palermo, nella trincea antimafia. Da oggi Gianni Orrù, 57 anni, è un sovrintendente di polizia in pensione. La sua è una storia speciale, di valori espressi in silenzio con l’esempio: coraggio, abnegazione, rispetto, nel suo caso anche di meticolosità estrema, tratto professionale «che ci ha consentito di portare a casa la pelle».
Il carattere dell’uomo è questo: «Una volta, a Palermo, un colonnello dei carabinieri che voleva disporre i servizi di sicurezza per il dottore in una particolare circostanza cercò di mettermi in difficoltà chiedendomi che grado avessi. Gli risposi cortese: “Non si preoccupi. Al dottor Caselli ci penso io: ho promesso alla signora Laura di riportaglielo a Torino intero quando sarà il momento”».
Il momento arrivò nove anni dopo, considerando anche il periodo del magistrato al Dap, il dipartimento che gestisce la sicurezza delle carceri e un’altra trincea avanzata della lotta alla criminalità organizzata, allora in modo particolare. Orrù sempre accanto al suo protetto. Pronto a fargli scudo con il suo corpo.
Non si è mai arrivati a tanto. Ma che vita: «Ho cominciato a scortarlo nel ’78, dopo il rapimento Moro e in vista del primo processo alle Br. Io arrivavo da Trieste e avevo l’abilitazione per guidare le auto blindate. Ne assegnarono una anche al dottore». Un’Alfa.
Dormire in strada «Eravamo in due poliziotti. Con i brigatisti il momento della giornata più a rischio era il mattino presto, quando uscivi di casa. Per il dottore, ma pure per me: avevano scritto “morte a Orrù” su un muro dalle parti delle Porte Palatine. Così lo accompagnavamo a casa, io salivo con lui sin sul pianerottolo. “Buonanotte”, “buonanotte”. E poi, una volta in macchina, era sempre molto tardi con Caselli per tutti questi anni si cominciava alle 6.30 e si finiva alle 2 - noi due della scorta ci dicevamo “andiamo a bere qualcosa”. E dopo ci si fermava con l’auto vicino a un torello all’inizio di via San Domenico. Dormivamo un po’ lì. Verso l’alba ci si dava una rinfrescata. E, accompagnato il dottore in ufficio, si trovava il tempo a turno di cambiarsi alla caserma di corso Valdocco».
Guardarsi intorno «In quel periodo non raccontavo mai nulla dei miei spostamenti a mia moglie Manuela. Sapevo che i brigatisti minacciavano i parenti per avere notizie. La tenevo all’oscuro per la sicurezza sua e dei nostri figli, Christian e Michela, allora molto piccoli».
Nel bar dove ci incontriamo, Gianni non fa che guardarsi attorno. Come se avesse lo zoom nelle pupille, osserva e mette a fuoco. «Me lo fa notare anche mia moglie, quando siamo al supermercato. È diventato quasi un tic». Gianni Orrù ha sviluppato un’innata vocazione alla protezione. E suo figlio Christian, seduto a rispettosa distanza a leggere un libro nel caffè affollato di chiacchiere, ha qualcosa nello sguardo aperto del padre che ne richiama l’istinto. Se gli chiedi dei sacrifici affrontati dalla famiglia dice solo: «Era il lavoro di papà».
Dalla Sardegna Il pericolo come dimensione quotidiana dell’esistenza. Se non hai i piedi ben piantati nella realtà non ce la fai. E la storia di Gianni è bella anche per questo: viene da un paese dell’Ogliastra, «eravamo sei fratelli», a 14 anni va a lavorarein campagna, ma in provincia di Rieti, «in continente. Guadagnavo 35 mila lire al mese». A 18 entra inpolizia. «Volevo far questo sin da piccolo». Al volante è bravo come pochi, ma non lo dice lui, è Caselli a raccontarlo: «Una volta in autostrada ci scoppiò una gomma mentre superavamo un Tir, Gianni controllò il testa-coda e inchiodò in sicurezza senza una parola».
Terroristi e mafiosi Le Bierre, come riferirà Peci da pentito, incrociarono la vita dei due un mattino al primo semaforo della via di casa Caselli. «Nello specchietto retrovisore - racconta Orrù - mi accorsi della gran agitazione della pattuglia che ci seguiva. Era il 1980. Un furgone ci supera, l’avevo già notato e ne avevo fatto controllare la targa. Abbiamo sterzato e via a tutta velocità in un’altra direzione».
«Con i terroristi bastava osservare la puntualità, farsi vedere ben armati. La mafia è invisibile. Credo fosse il 1994, un’intercettazione - “E’ arrivato il tritolo per lui e pure se prende la libellula sappiamo cosa fare” rivelò che potevano farci saltare per aria e colpirci ugualmente con un missile terra-aria. Ne erano stati rubati quattro e solo tre vennero recuperati. La libellula nel nostro gergo era l’elicottero e loro lo sapevano. In quel periodo l’ora più brutta veniva ancora una volta al momento di uscire dal complesso dove vivevamo blindati. Un altro lo facevo salire in ambulanza, una volta in moto, gli schiacciavo un cappellino da baseball in testa, il giubbotto antiproiettile, e via. Altre schizzavamo con tre auto fuori dal cancello, una da una parte l’altra dall’altra. I colleghi del Nocs in moto che non ci perdevano di vista».
Uno di famiglia E adesso? «Vado in bicicletta. Sono felice di andare in pensione. Tutti quegli anni sono stati pesanti, da pressione massima a 180 e minima a 130 . Non fosse stato che riuscivamo anche a riderne. Come quella volta che il dottore mi propose di vedereToro-Cagliariintivùnelsuo tinello di Palermo. “Si sieda sul dondolo che sta comodo”. Mi siedo e segna il Cagliari. Lui si agita e dà gran manate sulla spalliera. E io: “Dottore, mi fa venire il mal di mare. Se non la smette la chiudo per il resto della partita sul terrazzino”. E giù a ridere tutti e due». Pausa. «Dovevamo sentirci anche, dopo Toro-Cagliari. Siccome abbiamo vinto noi, non l’ho chiamato...».
Gianni Orrù è diventato uno di famiglia in casa Caselli e lo è restato anche dopo il 2002 quando, rientrati insieme a Torino, ha lasciato la scorta. Il procuratore dice di lui: «Per dire quant’era autorevole, i miei figli a un certo punto davano più retta a lui che a me».
Gianni, cosa le mancherà adesso? «I viaggi con il dottore. Mi ha fatto da fratello maggiore e anche da padre». Di sicuro continueranno a canzonarsi affettuosamente. È stato un antidoto alle loro vite blindate.