Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 08/10/2012, 8 ottobre 2012
LA GUERRA CON I LIBICI PER IL GAMBERO ROSSO. PRESI DUE PESCHERECCI DI MAZZARA DEL VALLO
La guerra per il gambero rosso torna a inquinare i rapporti tra Italia e Libia. Un gambero pregiato, che si pesca a mille metri di profondità. Gli italiani hanno le navi e le reti giuste. I libici no. Ma per loro è ormai una questione di bandiera: nel golfo della Sirte a pescare non si entra, a costo di sparare. Ieri, per l’ennesima volta, i pescherecci italiani sono stati fermati dai veloci barchini della guardia costiera libica e dirottati con i mitra puntati al porto di Bengasi. Una versione racconta che almeno un poliziotto libico abbia sparato in aria per fermarli. A bordo 14 marinai: 7 italiani, 6 tunisini e un emigrato dal Ghana. «Sono gente d’esperienza, alcuni sono uomini maturi, gente con lunghi anni di navigazione sulle spalle. Sembrano tranquilli. Quando i militi libici sono saliti a bordo con i mitra spianati e il colpo in canna, loro hanno offerto la cena: a base di gambero rosso naturalmente! Tutto sommato sembrano più calmi che altri in passato al loro posto. E questo aiuta», sostengono i diplomatici italiani già mobilitati e in contatto con le autorità locali.
È cambiato tutto nell’ex Paese di Muammar Gheddafi. Tra 12 giorni sarà il primo anniversario della sua morte alle porte di Sirte. Il 7 luglio scorso i libici hanno avuto le prime elezioni democratiche dopo 42 anni di dittatura. Oggi si dibatte per la difficile costituzione della nuova coalizione di governo. Eppure, per i pescatori di Mazara del Vallo, e in generale per chiunque si avventuri nel Mediterraneo in cerca di pesce verso il Golfo della Sirte, non è cambiato proprio nulla. «A Tripoli è stata la rivoluzione. Non vogliono riconoscere alcunché della vecchia dittatura. Tranne una cosa: la scelta unilaterale voluta nel 1975 da Gheddafi di estendere arbitrariamente le acque territoriali a 72 miglia, contro le 12 riconosciute dall’Italia nel rispetto dei trattati internazionali», ci raccontava poche settimane fa l’ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Buccino Grimaldi. Per lui, come del resto per il console italiano a Bengasi, Guido De Sanctis, era da poco terminata una maratona di trattative per riportare a casa la ventina di marinai di tre pescherecci di Mazara Del Vallo fermati l’8 giugno dai barchini libici e obbligati con la forza a puntare su Bengasi. Il loro calvario durò sino al 7 luglio.
Ora la cosa si ripete. Ieri sera il «Daniela» e «Giulia» sono arrivati nella cittadina costiera libica ancora traumatizzata dagli eventi della notte dell’11 settembre, quando gruppi legati al fondamentalismo islamico presero d’assalto il consolato americano uccidendo l’ambasciatore Usa assieme a tre collaboratori. E per loro si apre adesso il tira e molla con le autorità locali, magari accompagnato a multe salate.
Centro della contesa resta comunque il mai sopito dissidio sulle acque territoriali e, ovviamente, il gambero rosso. Gli italiani lo catturano grazie a gigantesche reti a strascico. Strumenti costosi, bisognosi di continue riparazioni. La volta scorsa tra le accuse libiche vi fu quella di aver rubato «reperti archeologici». Tra le maglie delle reti erano rimasti impigliati cocci e frammenti di antiche anfore che si trovavano sui fondali. A poco servirono le spiegazioni italiane. I pescatori conoscono il problema, sanno che ogni pretesto è buono per multarli, e si cautelano regalando spesso una parte del pescato alle autorità libiche. Probabilmente lo avrebbero fatto anche questa volta. Ma in Libia sono tempi difficili. Il governo centrale è più debole che mai. Le milizie non disarmano, nonostante le recenti manifestazioni popolari a favore del loro scioglimento nelle forze di sicurezza nazionali. In verità non esiste un esercito che possa prendere il loro posto. Dare la caccia ai pescatori stranieri e rivendicare la «libicità» del Golfo della Sirte è dunque un modo per dimostrare sovranità di facciata, ben sapendo che di sostanza c’è ben poco. E a farne le spese sono così i buongustai di gambero rosso e soprattutto le tasche di chi di vive del suo mercato.
Lorenzo Cremonesi