Antonio Gnoli, la Repubblica 6/10/2012, 6 ottobre 2012
ARTE SU MISURA
Si prova un senso di meraviglia e di sconcerto davanti al nuovo libro di Ruggero Pierantoni:
Salto di scala
(Bollati Boringhieri). Cos’è questo titolo che allude alla metrologia, che parla di oggetti d’arte misurati con il righello, che spazia tra le immagini più diverse in una storia densa di eventi pittorici, letterari e cinematografici, dove Ejzenstejn va a braccetto con Piranesi e l’omicidio di Trockij può esser letto alla luce di
Delitto e Castigo
di Dostoevskij? C’è molto disordine sotto il cielo. Ma è un disordine creativo quello messo in moto da questo scienziato e umanista, specializzato in biofisica, che ha lavorato in molte università americane e che insegna a Genova.
Ecco un libro stravagante dove i “salti di scala” sembrano salti di logica, e la libertà di ricerca si fa a volte anarchia.
«Di “bizzarrie” ne ho prodotte ben poche. Pensi che la mia ricerca, dalla quale ho ottenuto una certa fama, si basava sulla memoria delle larve, dopo che la metamorfosi le trasforma in scarafaggi. Su un piano strettamente letterario il problema era stato posto già da Kafka».
E lei lo ha risolto?
«Direi di sì. Ho insegnato a degli insetti, refrattari alla luce, a entrare in un labirinto per poi guidarne il percorso. La tecnica è stata di illuminare quelle zone in cui la luce facesse da segnale di divieto. Dopo la metamorfosi li ho rimessi nello stesso labirinto, ma questa volta interamente buio, e gli “scarafaggi” ripercorrevano la stessa strada ».
Ma poi ha lasciato gli insetti e si è dedicato ai rapporti tra scienza ed arte. C’è una relazione tra visione e pensiero?
«A meno di non farli coincidere, come intendeva Plotino, inviterei a una certa cautela. Ho trascorso più di tre anni, nell’Università di Toronto, a condurre dei test cognitivi e linguistici sui ciechi assoluti e ciechi resi tali da traumi. Quell’esperienza mi ha convinto della quasi intrattabile complessità della questione».
Però lei mescola arte e scienza. Cosa le tiene insieme?
«Il mescolarle è per me un gioco intellettuale. Starei per dirle un “salto di scala”. Quando ho cominciato a interessarmi di storia dell’arte sono rimasto colpito dalla sua serietà strutturata. In un testo sugli avori ottoniani o sulle porcellane di Sèvres, c’è la stessa accurata precisione che in uno di astrofisica».
Lei ha dedicato questa ricerca alla misurazione di alcune opere. Cosa dobbiamo ricavare dal sapere che un quadro misura pochi centimetri o alcuni metri, che una figura al suo interno ha una certa dimensione
o quanto è distante dalla cornice?
«Misurare qualcosa è anche un’operazione linguistica. Le espressioni “piede attico” o “piede dorico” la dicono lunga su una faccenda che la Rivoluzione Francese mise a tacere con l’introduzione del “Meridiano di Francia”, ossia con la lunghezza esatta del metro. Se ascolti Palladio quando parla di “tese” o di “pertiche” intuisci che si è persa l’enorme mitologia linguistica che c’era dietro le unità di misura».
Si è perso qualcosa ma a vantaggio di una unificazione che ha semplificato il discorso e reso leggibile il rapporto tra gli oggetti e lo spazio che li contiene.
«Anche a me interessa la “misura comune”, quella che guida i progettisti di containers, gli assicuratori, i galleristi, i venditori di tele, gli architetti di musei. Le opere d’arte sono misurate perché costano soldi. E non è trascurabile domandarsi perché
Zaha Hadid ha deciso di costruire degli spazi architettonici che prescindono dalla grandezza delle opere».
Al punto da scriverci un libro?
«Perché no. Qualche anno fa ero con i miei figli davanti a Mount Rushmore. E mi colpiva l’enormità sproporzionata delle teste dei quattro presidenti: teste senza corpi, veri e propri pezzi di montagna. E allora la domanda è: come ci rapportiamo davanti ad opere la cui grandezza non sia soltanto dettata dalla misura comune? Problema che Hitchcock in
Intrigo Internazionale
ha perfettamente chiaro. Si tratta di un interessante salto di scala dove la “stessa” immagine – i 4 presidenti – richiede un’indagine linguistica e mitologica comune».
Come un dettaglio diventa significativo?
«Occorre innanzitutto che il dettaglio sia
leggibile. Prenda il mammut di un dipinto rupestre. Con un righello scopriamo che è lungo 45 centimetri. In questo spazio, chi lo ha disegnato ha dovuto mettere una serie di informazioni. Se fosse stato più piccolo, l’occhio magari non avrebbe visto il fiocco della coda. Il grande fiammingo, incline alle miniature, sa che per non perdere di significato, deve lavorare sulla tela a una risoluzione tale per cui il dettaglio sia visibile. Farei ancora un esempio un po’ misterioso ».
Faccia.
«Il fregio di Fidia nel Partenone, oggi al British Museum. Era posto ad un’altezza per cui era complicatissimo da vedere. Perché un oggetto di rara perfezione fosse stato collocato in un punto non visibile è difficile da spiegare. Ma sono convinto che fino a un certo punto della nostra storia umana
le opere d’arte non fossero state create per essere viste. Il rapporto con la visione dell’opera è qualcosa di più recente».
E soprattutto vedere un’opera non è un atto spontaneo.
«Non lo è per la semplice ragione che tra essa e chi la guarda si crea uno spazio simbolico. Uno spazio di negoziazione tra il divieto totemico di guardare un’opera, diciamo per la sua potenza annichilente, e l’attrazione fisica, perfino erotica, di toccarla».
È uno strano equilibrio psichico.
«È soprattutto un problema anamorfico. Molto dipende da che cosa si sta guardando. Se sono davanti a un quadro di Matisse, tenderò a vederlo quasi sempre ad angolo retto, perché la superficie è piana. Ma davanti alle
Tre Grazie
del Canova sono costretto a muovermi. Cambiano i tempi di reazione. Alfred Lukyanovich Yarbus, un ricercatore
russo, misurò i movimenti oculari di osservatori mentre guardavano un
quadro».
Con quali effetti?
«Interessanti, perché nel 1955 la psicologia cognitiva era ancora molto arretrata. Yarbus si mise a studiare i tempi di osservazione di un dipinto. Le strategie di visione di una immagine bidimensionale statica sono sorprendenti per la loro enorme complicazione. E sono quasi molto più seducenti intellettualmente di quelle che si generano nell’osservare una immagine in movimento».
Eppure lei dedica molto spazio al cinema e poco o niente alla fotografia.
«La fotografia per ragioni strettamente tecniche non ha potuto giocare con le dimensioni e con la disinvoltura della pittura che dilagò, quasi subito, dal graffito rupestre a molte decine di metri quadrati, dal francobollo al
Giudizio Universale
».
La fotografia come monotonia degli spazi?
«Direi di sì, sapendo che il cinema si fonda su di una intensa e incoercibile illusione che è un misto di componenti biofisiche, fisiologiche, anatomiche, percettive, cognitive, culturali, ideologiche e via illudendo».
Il suo libro ambisce a ricostruire le “biografie
delle immagini”, la loro vita e la loro
morte.
«La discutibile scelta della parola “biografia” ha imposto per coerenza la parola “morte”. Vorrei evitare i toni
melò.
Diciamo che alcune immagini, dopo un certo tempo, scompaiono per una serie di ragioni: guerre iconoclaste, innovazioni tecniche, epurazioni politiche, alternanza di credi religiosi, cambiamento dello stile di vita e delle mode. Altre vengono a sostituirle: diverse, identiche, contrastanti, imitate o false. A volte le “nuove venute” sono più piccole, altre volte più grandi. Tutto qui».
Lei ha lasciato fuori parole come “verità” e “realtà”. Le ritiene inutili o facilmente equivocabili?
«Non sono parole con cui io abbia familiarità e non saprei usarle con la dovuta competenza».