Alessandro Penati, la Repubblica 6/10/2012, 6 ottobre 2012
BILL GATES, CARLOS SLIM E LA CRESCITA PERDUTA
DA 15 anni la crescita italiana non tiene il passo con l’Europa del “nord” e gli altri paesi industrializzati: il divario di reddito si allarga e il debito pubblico diventa meno sostenibile. Da almeno 60 siamo alle prese con la questione meridionale. Questi i grandi problemi del paese. Che cosa ci sia all’origine della differente prosperità economica di nazioni o regioni, e che cosa determini la loro capacità di crescere, è l’argomento del libro Why Nations Fail (D. Acemoglu e J. Robinson): un’analisi che mette in luce elementi rilevanti per l’Italia di oggi.
La spiegazione “geografica” (clima, risorse naturali) e quella “sociologica” (credo religioso, cultura, struttura familiare) sono state contraddette dall’evidenza empirica. La spiegazione più frequente è la “miopia”: la scarsa crescita è frutto
di politiche economiche errate, prodotto della “miopia” di una classe dirigente. Basterebbe quindi una élite illuminata che attui le politiche giuste. Ed è la convinzione prevalente in Italia: la ricetta per la crescita
è nota, ma è compito di una nuova élite (governo tecnico, Bce, Ue, concertazione sindacati-imprese, eccetera) metterla in atto. Questo libro documenta che non è così.
Le istituzioni economiche determinano gli incentivi all’istruzione, al risparmio, all’investimento, all’innovazione, all’adozione di nuove tecnologie. In definitiva, la capacità di crescita. Le istituzioni economiche sono quindi cruciali; ma è il processo politico che determina le istituzioni economiche; e sono le istituzioni politiche che determinano il funzionamento di questo processo. La crescita dipende quindi da quanto l’agenda della politica e delle istituzioni è dettata dagli interessi della classe dirigente, piuttosto che dei cittadini. Sarà minore dove un’élite radicata privilegia le politiche che consolidano il suo potere. Crescita economica, infatti, significa rimpiazzare il vecchio col nuovo, adattandosi rapidamente a nuove tecnologie e cambiamenti, spostando capitale e lavoro verso i settori più produttivi: la celebre “distruzione creativa”, che però destabilizza relazioni e posizioni consolidate, alterando potere politico ed economico. Una classe dirigente difficilmente
si darà da fare per indebolirsi con le proprie mani.
Nogales, Arizona, ha un reddito pro capite triplo di Sonora, Messico; ha scuole e strade migliori, meno corruzione e criminalità. Eppure, solo una barriera di confine separa le due città. La spiegazione sta nella storia di due tra i più ricchi uomini al mondo: l’americano Bill Gates e il messicano Carlos Slim. Il primo ha costruito la sua fortuna creando Microsoft: il sistema educativo gli ha dato l’istruzione appropriata; le istituzioni economiche gli hanno permesso di creare una nuova impresa e fornito i finanziamenti; il mercato del lavoro di assumere personale qualificato; un mercato aperto di vendere i suoi prodotti ed espandersi. Le stesse istituzioni, a garanzia dell’interesse collettivo, hanno però controllato che non abusasse del potere monopolistico.
Carlos Slim, invece, ha costruito la sua di fortuna conquistando il monopolio della telefonia dalla privatizzazione di Telemex, pur non essendo il miglior offerente, con risorse ottenute a debito; e preservandolo, sei anni dopo, vincendo contro l’accusa di monopolio dell’Antitrust messicano. In un paese dove dominano le relazioni e la corruzione della classe politica. Questo dovrebbe ricordarci qualcosa. Per crescere e ridurre le disparità regionali non basta enunciare e promettere riforme economiche. Ci vuole una
critical juncture,
ovvero un evento critico che rompa l’equilibrio delle istituzioni politiche, e quindi economiche, della società. Oggi, non mi illuderei che governo tecnico, riforma elettorale, movimentismo, federalismo, fiscal and growth compact possano rappresentare uno di questi snodi cruciali. La nostra
juncturecritica
poteva essere l’apertura ai capitali e alla concorrenza internazionali a seguito della crisi del 1993 e dell’ingresso nell’Euro: avrebbero potuto spazzare relazioni e rendite, disintermediare il sistema bancario, e imporre al paese riforme e liberalizzazioni. Un’occasione perduta perché le nostre élite si sono arroccate con successo: con il nobile pretesto di tutelare la stabilità del sistema finanziario, dell’interesse nazionale e dell’occupazione.