Matteo Persivale, Corriere della Sera 06/10/2012, 6 ottobre 2012
L’IMPORTANZA DELLA VOCE
«Questa decisione risolve una volta per tutte il destino dei neri. Non soltanto di quelli che sono oggi in catene, ma dei milioni non ancora nati nelle future generazioni». Le nobili parole di Abraham Lincoln risuonano nel trailer del nuovo film di Steven Spielberg pronunciate da Daniel Day-Lewis, il protagonista. Il film-biografia, che debutta dopodomani al New York Film Festival e uscirà il 9 novembre negli Stati Uniti e a febbraio 2013 in Italia, ha già creato aspre discussioni in America semplicemente sulla scorta di due brevi trailer. Il problema? Gli storici discuteranno dell’accuratezza nella descrizione del Lincoln politico (tra gli sceneggiatori c’è la storica Doris Kearns Goodwin), ma il tono della voce di Lincoln scelto dall’attore inglese ha subito suscitato perplessità. Troppo acuto, troppo freddo, poco «autorevole». Il problema, ovviamente, è che Lincoln fu assassinato dodici anni prima dell’invenzione del fonografo, negandoci ogni possibilità di avere una registrazione della sua voce. Ma il paradosso è che Day-Lewis — come sempre maniacale nella ricerca sui personaggi che interpreta — ha svolto un’accurata ricerca storica: la voce di Lincoln, infatti, secondo testimonianze dei contemporanei, era piuttosto acuta e poco affascinante, molto bizzarra per un uomo della sua statura imponente (194 cm: è a tutt’oggi il presidente più alto). Quel grande oratore aveva infatti, secondo autorevoli biografi come Holzer e White, una voce che inizialmente, prima di scaldarsi, poteva suonare addirittura «lamentosa». Cosa spinge a attribuire a una persona che non abbiamo mai sentito parlare un certo tono di voce in base all’importanza e al carisma di quella persona? Cosa ha di così speciale la voce baritonale?
Secondo Maria Rita Ciceri, professore di Psicologia all’Università Cattolica di Milano, «dalla voce traiamo abitualmente dati non uditivi, come ci confermano molte ricerche: dalla voce costruiamo un’immagine della persona alla quale appartiene. E questo funziona anche nel percorso inverso: a chi è alto, con un viso austero, con la barba come quella di Lincoln, si attribuisce una voce grave, anche senza averlo sentito parlare. Ma perché venga attribuita credibilità a una voce è importante non soltanto la tonalità: conta moltissimo il ritmo dell’eloquio, le pause. A una voce profonda con le pause giuste e l’enfasi sulle parole giuste viene attribuita autorevolezza. Diversa è la questione della voce seduttiva, ma se si parla di autorevolezza è vero: ci sono una serie di inferenze inevitabili. La psicologia della voce è un campo molto studiato, basta pensare all’applicazione nel campo dei corsi per imparare a parlare in pubblico: manager, politici, fanno spesso affidamento su queste tecniche». Poco importa che i grandi oratori della politica moderna dei quali è giunta la voce registrata — Kennedy con quell’accento bostoniano così alieno a buona parte dell’America, Churchill maestro d’inflessione ma con un tono certamente non caldo, e reso più rauco dall’età avanzata — non avessero in realtà la voce che ci saremmo immaginati leggendo le loro parole.
Il maestro Leo Nucci, uno dei massimi baritoni verdiani di sempre, è in questi giorni (fino al 26 ottobre) al teatro Regio di Parma con «Rigoletto»: impossibile non chiedere lumi proprio a lui: «Verdi alza la voce del baritono, in tessitura, e abbassa quella del tenore, in un certo senso li mette sullo stesso piano, e pensiamo che, Mozart a parte, il tenore era quasi sempre il protagonista. Ma io, in tutti questi anni, ho pensato molto al motivo che rende la voce baritonale così speciale: da Nabucco ai Due Foscari, da Macbeth a Luisa Miller, e poi Rigoletto, e Germont nella Traviata... per Verdi è la voce dell’autorità. La voce dei padri. La voce della calma. La voce che da bambini abbiamo sentito in braccio a nostro padre, accanto al suo cuore. Naturale che gli americani abbiano attribuito questa voce a Lincoln, il padre della patria — nel senso che un secolo dopo i padri fondatori degli Stati Uniti è stato il padre dell’America multirazziale. Il suono acuto, non c’è niente da fare, risulta petulante. Penso a certi papi: che svantaggio per Benedetto XVI non avere quel bel tono caldo del suo predecessore! Da ragazzo sa chi erano i miei idoli? Non i cantanti d’opera ma Nat King Cole, Frank Sinatra, e Bing Crosby che è il padre di tutti noi baritoni. A teatro? Gassman era il mio eroe, altra grande voce baritonale. Come Albertazzi. Da cattolico e da interessato lettore della Bibbia non mi perdo uno dei commenti ai testi sacri del cardinale Ravasi: studioso dottissimo, sì. E voce baritonale così affascinante. Mi regala un senso di calma».
Matteo Persivale