Laura Pariani, National Geographic 10/2012, 5 ottobre 2012
BAIRES, ITALIA
Quando ci si ritrova nelle riunioni di famiglia, non manca mai che tío (zio) Alfredo racconti una vecchia barzelletta. L’abbiamo sentita tante di quelle volte che nessuno, claro, ride più. Quando attacca con la sua storiella noi nipoti più giovani alziamo gli occhi al cielo, perché già sappiamo cosa ci aspetta: è come se desse la stura al groppo di memorie che stringe la gola ai parenti più anziani.
E allora ecco tía Clara che rievoca la prima notte trascorsa all’Hotel de Inmigrantes; in attesa dei controlli medici e legali, bisognava passare un paio di giorni lì dentro, in un enorme dormitorio; e quella prima sera dovette assistere alla proiezione di un film sulla storia e la geografia dell’Argentina: "E io non capivo niente, non sapevo neanche una parola di castellano!", conclude ridendo. Tío Antonio, che partì a 12 anni, parla invece con nostalgia del grande bosco di castagni che circondava la casa di Cuneo dove è nato, mentre tío Nanni si dilunga a spiegare a noi nipoti, nati e vissuti nel clima mite di Buenos Aires, la crudezza degli inverni italiani con tanto di neve e "fiori di ghiaccio" alle finestre. Cosa siano ’sti "fiori di ghiaccio" faccio fatica a immaginarlo, ma questa al fin y al cabo resta comunque la parte più bella dei convegni familiari, perché i paesaggi italiani evocati dai discorsi dei vecchi sono quasi da sogno, con montagne, alberi, nomi che per noi nipoti e bisnipoti hanno un che di assolutamente esotico.
Io faccio la tassista e quando dall’Aeropuerto Internacional di Ezeiza porto in città i turisti appena arrivati, non appena sento qualcuno che parla italiano mi diverto a domandare da che parte dell’Italia provenga e poi lo sbalordisco con i miei ascendenti. Perché la mia famiglia è proprio una grande mezcla, come si dice qui: Pordenone, Cuneo, Oristano, Cosenza... "La vera unità d’Italia siamo noi", dice spesso ridendo mio papà. Del resto qui a Buenos Aires le differenze regionali non contano poi tanto: siamo tutti egualmente tanos, termine che, a quanto dicono i vecchi, è un diminutivo di napolitanos: la qual cosa non significa che la comunità napoletana a Buenos Aires sia la maggioranza. De todo modo siamo tutti tanos; come tutti gli spagnoli sono gallegos, anche se non vengono dalla Galizia, o tutti i mediorientali sono turcos.
Mamá dice che i vecchi, quelli che arrivarono qui all’inizio del Novecento, parlavano dell’Italia solo tra loro, ma raramente con i figli nati in Argentina, come se non volessero trasmettere loro la nostalgia. Forse questo succedeva perché la loro partenza ebbe l’amaro della costrizione: tutti poveri, perlopiù contadini settentrionali col desiderio di un pezzo di terra proprio. Gente che aveva messo da parte i denari per il viaggio, un centesimo dietro l’altro, vendendo perfino i pochi ori di famiglia. Si imbarcavano a Genova e guardavano con rabbia la riva che si allontanava, ripromettendosi di tornare presto per sotterrare d’invidia chi aveva loro negato un prestito. È incredibile pensare che quella gente, che quasi mai era uscita dal piccolo paesello di campagna dov’era nata riuscisse ad affrontare con tale grinta la traversata dell’oceano.
Qui alla Darsena Norte ne sbarcarono tanti a quell’epoca: milioni, senza alcuna informazione oltre alle lettere ricevute da qualche amico o parente partito in precedenza, ignorando l’ubicazione esatta dell’Argentina e confondendo nomi. Tutti giovani, molti perfino ragazzini, carichi di speranze e di pochi oggetti personali, per i quali una piccola valigia era più che sufficiente.
Ognuno si arrangiava come poteva, la maggior parte finiva a fare la bassa manovalanza nei mataderos (mattatoi) o nei frigoríficos, oppure diventava muratore: a quei tempi Buenos Aires era interessata da un formidabile sviluppo edilizio. Poi col tempo diminuì la quantità di contadini e aumentarono gli artigiani e i commercianti da ogni regione d’Italia. Lo sapete che cent’anni fa questa era la maggior colonia italiana del mondo? Falegnami, calzolai, imbianchini, sarti, barbieri: ognuno impiantava la sua bottega. Quasi il 62 per cento dei negozi era di proprietà di tanos. E quando nelle riunioni di famiglia si torna a parlare di quel periodo, saltano fuori nomi che sono diventati mitici: i biscotti Canale, le bibite gasate Liberti, la pasticceria Brenna, le conserve Benvenuti, i ristoranti Pedemonte e Perosio, la pizzeria Banchero, il grande Spinetto che controllava i mercati.
Dov’eravamo rimasti? Già, ai milioni di italiani che sbarcarono alla Darsena Norte, pronti a diventare porteños, che è il nome che viene dato agli abitanti di Buenos Aires. Ne è venuta fuori questa strana città. Nella parte nord, palazzi alti sovrastati da cupole, facciate dipinte di rosa perché a quell’epoca alla pittura bianca si aggiungeva il sangue di bue che era il colorante più a buon mercato; e poi viali fioriti e caffè eleganti.
Invece, nella parte che sta a sud di Avenida de Mayo, gli immigrati si stipavano nei conventillos di La Boca, San Telmo, Nueva Pompeya, Barracas. Avete mai visto un conventillo? Al centro c’è un grande patio su cui si affacciano le stanze, una per ogni famiglia, con i servizi in comune per tutti. Adesso i conventillos rimasti in piedi sono stati restaurati, alcuni perfino affittati a turisti stranieri a cui piace il colore latino dei nostri vecchi quartieri.
Mamá racconta che, quando da bambina la portavano in visita da nonno Alberto a San Telmo, le faceva una certa impressione l’affollamento di quei cortili in cui i vecchi passavano ore interminabili a ricordare il paese abbandonato in Italia, a rievocare la lingua materna con una sfilza di colorite imprecazioni: "Belìn!" o "Ca te vegna un càncher " oppure "Mu ti mangi la lingua la seminara".
Insomma, una grande città italiana; anzi, la più grande città italiana. Perché l’ondata migratoria dall’Italia fu la più consistente qui e superò di gran lunga qualsiasi altra, perfino quella spagnola. Figuratevi che all’inizio del Novecento a Buenos Aires c’erano più immigrati europei che criollos, che è il nome che si dà a chi è nato in America. Infatti si usa dire: i messicani discendono dai Maya, i peruviani discendono dagli Inca e gli argentini discendono dai... bastimenti.
La vita di quei primi tanos, per la struttura architettonica stessa dei conventillos, era per forza di cose intensamente comunitaria, e quindi solidale: con compleanni, sposalizi, battesimi festeggiati tutti insieme nel patio, intorno a lunghe tavolate rustiche. Per questo noi discendenti dei tanos siamo così espansivi: eredi delle feste di famiglia, dell’abitudine ai baci sulla guancia, della passione per l’opera lirica, ma soprattutto del liquorino condito di chiacchiere del dopocena quando i più vecchi intonano: "La montanara ohé...". Da noi in famiglia non c’è festa in cui qualcuno non tiri fuori la fisarmonica per rievocare quell’Italia dove si può tornare soltanto in sogno.
La cosa più divertente è che la maniera di festeggiare il Natale e il Capodanno è rimasta immutabile, perfino riguardo ai cibi della tradizione italiana. Purtroppo polenta e ossobuco, bagna càuda, oppure cotechino con le lenticchie, non sono i piatti più adatti ai 40 gradi dell’estate porteña; come pure il torrone o quel dolce che si chiama tarantella - uova, dulce de leche e caramello - e che forse deve il suo nome al fatto che poi bisogna passare ore e ore a ballare per smaltirne le calorie. Io, con il caldo che c’è in città a Natale, preferirei gelato e una birra ghiacciata, con al massimo l’accompagnamento di una fettina di salame, tanto per picar.
Ma tant’è: la tradizione comanda così e in casa mia non si transige.
Del resto anche il mangiare della quotidianità è fortemente influenzato dall’eredità italiana: con i tallerines fatti in casa, la fugazza con la cipolla, la fainá di ceci, la torta pasqualina, la trippa, i pomodori ripieni, i risottos, i sorrentinos, gli agnolottis, le lasañas, i fettuccinis, la milanesa... Lo sapete che uno dei miei zii inventò la milanese alla napolitana? Faceva il cuoco in un ristorante del centro; un giorno gli venne l’idea di aggiungere salsa di pomodoro e tocchetti di mozzarella sulle cotolette impanate, e il successo fu immediato. Lo so, alcuni turisti italiani si lamentano che il pesto argentino è fatto con prezzemolo e noci, oppure che la nostra pasta è di grano tenero e si scuoce. Nonno Enzo dice che ogni campanile ha la sua maniera: sarà anche vero che in Italia la pizza si cucina diversamente, ma qualcosa vorrà pur dire se per consumo di pizza Buenos Aires è seconda solo a New York. Dovreste andare a La Boca il 24 ottobre, quando la statua della Vergine de los Mártires Navegantes gira in processione il quartiere, con le bandiere tricolori e i gagliardetti delle varie comunità, fino al monumento della Madre del Marinaio. Vedreste i rappresentanti di tutte le parti d’Italia, molfettesi in testa.Ogni gruppo di immigrati si è portato dall’Italia il suo santo patrono: quelli di Vazzano festeggiano san Francesco di Paola, quelli di Sant’Arcangelo san Michele, quelli di Ripacandida san Donato, i genovesi la Madonna della Guardia, i siracusani santa Lucia... Senza contare la festa della Madonna de los Buenos Aires, nel quartiere Caballito, in cui si trova una preziosa immagine che è l’esatta copia della Vergine che si venera a Cagliari nel Santuario di Bonaria. Perché, se non lo sapevate, ci fu un sardo tra i fondatori di questa città nel Cinquecento e proprio da Bonaria deriva il nome di Buenos Aires.
Así noi, anche se discendenti di quarta o quinta generazione, ci teniamo alle tradizioni: claro, siamo argentini, ma in qualche modo anche tanos, e ne siamo fieri. Tutta la città è impregnata dello stile italiano, e non solo nei marmi di Carrara e nei cristalli di Murano degli edifici più prestigiosi.
Prendete per esempio il filete, quella decorazione di linee e volute multicolori, con l’accompagnamento di un motto sentenzioso, che è il simbolo porteño per eccellenza. Viene dalla maniera di decorare i carretti siciliani. Lo portarono qui gli immigrati del Sud e subito il decorare a colori vivacissimi i carri da trasporto divenne un’abitudine che poi passò ai veicoli a motore.
Mamá racconta che negli anni Cinquanta le imprese di trasporto più importanti non mettevano in circolazione autobus che non avessero l’insegna fileteada. In salotto abbiamo ancora la fotografia del camioncino di famiglia, con cui nonno Martín si riforniva ai mercati generali: azzurro con la scritta a filete in rosso e in giallo. E indovinate qual era il motto? Una sorta di proverbio che in famiglia si ripeteva sempre: "Conserva il flauto, ché la serenata è lunga".
Senza contare il tango. Sì, lo so che la questione dell’origine del tango è spinosa: porteños e uruguayani ci si accapigliano contendendosi la paternità di questo ballo. Ma a me pare indubbio che, se non fu soltanto una creazione italiana, mosse certamente i primi passi intorno a La Boca, che è sempre stato un quartiere con una schiacciante maggioranza di tanos.
Claro che gli immigrati resero il tango nostalgico e malinconico, come era lo sradicamento di cui soffrivano. Del resto basta pensare ai compositori e musicisti del tango: italiani o figli di tanos furono Discepolo, Greco, Contursi, Spatola, Lomuto, Piana, De Caro, Maffia, Firpo, Pugliese, Manzi. Per non parlare del nostro vocabolario: gli immigrati portavano nei loro dialetti il germe del lunfardo, la lingua usata nel tango: diversa per sonorità e significati dallo spagnolo ufficiale. Una volta qualcuno mi ha spiegato che il termine lunfardo deriva da "lombardo", ma in effetti si tratta di una mescolanza di parole provenienti da tutti i dialetti italiani. Qualche esempio? Seca, è la mancanza di soldi; vaivén, il coltello a serramanico; linyera, il disoccupato; bagayo, la donna brutta; papusa, la bella appetitosa; vento oppure guita, il denaro; laburo, il lavoro: tutte parole inventate nella babele dei conventillos che poi, attraverso il tango e l’uso quotidiano, arrivarono a trasformarsi in un altro dei segni dell’identità porteña.
Al fin y al cabo, si potrebbe dire che i criollos si sono italianizzati e che i tanos si sono argentinizzati fino, per esempio, a bere il mate di cui, indipendentemente dalle proprie origini, nessun porteño potrebbe fare a meno. D’altra parte, i tanos hanno vissuto le stesse terribili vicende di tutti gli altri abitanti di questa nazione: hanno subito le atrocità della dittatura come pure la terribile crisi economica del 2001, sono scesi in piazza tra le Madres di Plaza de Mayo o tra i pensionati che protestavano contro le banche a suon di casseruole. Siamo argentini fino al midollo, ma studiamo l’italiano dei bisnonni alla Dante Alighieri, all’edicola compriamo insieme a La Nación il Corriere della Sera e siamo fanatici della pizza.
A proposito, sono le quattordici, mi è venuta fame. Volete accompagnarmi a pranzo? Oggi siamo al 28 del mese, perciò ci sono i ñoquis (gnocchi) di patate. Che c’entrano i ñoquis col 28? A Buenos Aires si usa così, forse perché è un piatto che costa poco, che i contadini italiani portarono qui con la loro abitudine a sparagnare. Il 28 è giorno di paga, il portafoglio si riempie di soldi, ma la tradizione vuole che si cominci risparmiando. Anzi, l’usanza esige che si metta sotto il piatto di ñoquis una banconota. Como guarnición. A mo’ di augurio: perché porti buono, perché anche il mese successivo si ripeta il miracolo di portare a casa uno stipendio... Non fate così anche in Italia?